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Home » Economia

Davos è morta e neanche la globalizzazione sta più tanto bene (di R. Bertoni)

Immagine di copertina
Credit: AP

Era il vertice più ambito dall’élite globale, il tempio del libero mercato ma nel 2023 a Davos non si è presentato nessuno dei grandi leader, tranne il socialista tedesco Olaf Scholz. Mentre si parla sempre più di povertà e delle storture del sistema neoliberista

C’era una volta Davos, amena località adagiata sulle Alpi svizzere in cui annualmente si riunisce un consesso chiamato World Economic Forum. A dire il vero esiste ancora e si è riunito quest’anno per la cinquantatreesima volta, ma ha cambiato radicalmente segno. Se sul finire degli anni Novanta e nei primi Duemila, l’incontro era la vetrina dell’intellighenzia economica, politica e finanziaria, interamente plasmata dalla dottrina del cosiddetto “Washington Consensus”, il sistema valoriale affermatosi dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, negli ultimi anni a farla da padrone sono state le economie emergenti.

S&D

Talmente era centrale questo convegno di alfieri del liberismo duro e puro che nel 2001, alla vigilia del G8 di Genova, il movimento alterglobal pensò di organizzare un controvertice in quel di Porto Alegre, cui parteciparono alcune delle più importanti personalità del pianeta (ad esempio, lo scrittore Eduardo Galeano) per affermare l’idea che un altro mondo fosse possibile. Non solo: si era arrivati al punto di idealizzare la figura del “Davos man”, il capitalista occidentale irradiato dalla “fine della storia” targata Fukuyama e proiettato verso le conquiste del nuovo millennio. Ebbene, quel modello è tramontato. Sappiamo com’è andata a finire a Genova, sappiamo cosa era accaduto in precedenza a Seattle, a Praga, a Napoli, a Göteborg e ovunque si fosse riunito un vertice ristretto di padroni del mondo determinati a decidere arbitrariamente le sorti del pianeta, sappiamo cosa è accaduto nei vent’anni successivi e sappiamo che oggi, sostanzialmente, gli ex padroni del mondo di questo vertice se ne vergognano. 

Se la politica è diventata sorda
Anche se non lo ammetteranno mai, non è un caso che da quelle parti, da anni, a fare la voce grossa siano i cinesi, benché Xi Jinping di questi tempi abbia non pochi problemi da fronteggiare a casa sua e sia stato costretto a mandare in avanscoperta il suo vice Liu He, protagonista di un incontro con la segretaria al Tesoro Usa, Janet Yellen. Fatto sta che l’unico leader del fu G8 a partecipare ai lavori è stato il tedesco Olaf Scholz, probabilmente per mantenere la propria credibilità sulla scena internazionale dopo la decisione di tornare a estrarre carbone (durante le proteste contro questa scelta è stata fermata persino Greta Thunberg) e per offrire garanzie sulla fornitura dei carri armati Leopard all’Ucraina. Gli altri hanno marcato visita, come a voler prendere le distanze da un ambiente che un tempo era il loro habitat naturale mentre oggi si è trasformato in un terreno ostile.

Pensate, tanto per dirne una, al governo italiano, bacchettato da Oxfam per l’intento di eliminare una misura di contenimento della povertà dilagante come il Reddito di cittadinanza. Pensate alle denunce, portate avanti sempre da Oxfam, in merito alla smodata concentrazione della ricchezza in poche mani. Pensate a quello che è stato chiamato “rich-washing”, ossia la proposta di tassare del 5 per cento i patrimoni più ingenti per affrancare dalla povertà fino a due miliardi di persone. Vien da sorridere se si pensa che da quelle parti, per due decenni, sono state teorizzate privatizzazioni a gogò, flessibilità del mondo del lavoro e leggi volte a favorire il taglio delle tasse ai ricchi, minando alle fondamenta il concetto stesso di stato sociale e redistribuzione della ricchezza. Del resto, a parte qualche attempato leaderino ormai fuori dalla realtà, che la globalizzazione sia un dio che ha fallito in ogni angolo del globo è un pensiero diffuso in tutte le università che si rispettino.

Non in politica, però. E il motivo è presto detto: lo scontro accademico fra il conservatore Samuel Huntington, autore del celebre saggio “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” e il sedicente progressista Francis Fukuyama, autore de “La fine della storia e l’ultimo uomo”, lo ha vinto quest’ultimo sul piano della considerazione mondiale elargita dalle presunte élite e il primo di fronte al tribunale della storia. Huntington, non certo un uomo di sinistra, aveva infatti capito per tempo alcuni aspetti che innervano il dibattito politico ed economico contemporaneo: dalla questione ucraina all’insostenibilità del “Davos man”, mettendo in discussione l’ottimismo di maniera che si era diffuso in Occidente quando si credeva che bastasse smantellare il vecchio modello sovietico per piegare in via definitiva l’Orso russo e imporre, a livello globale, l’occidentalizzazione della società. Peccato che persino un sostenitore di quel modello, diremmo uno degli artefici della Terza via blairiana, come Anthony Giddens avesse messo in guardia dal rischio di “globalizzare la democrazia” senza “democratizzare la globalizzazione”, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di chiunque. Non si dovrebbe parlare d’altro ma, purtroppo, non è così. E non è così perché nessun partito, non solo in Italia, può dire di avere la coscienza a posto.

Privatizzazioni di sinistra
Soffermandoci su quello che è accaduto nel nostro Paese, negli anni Novanta abbiamo avuto il primo assaggio di ciò che nell’ultimo decennio è diventato la consuetudine: i governi tecnici o semi-tecnici. Amato, Ciampi e Dini, benché diversi e senza tracciare alcun giudizio sui protagonisti, questo sono stati. E a dirigere l’orchestra, in qualità di direttore generale del Tesoro, c’era un giovane economista di valore di cui avremmo sentito a lungo parlare nei decenni successivi: Mario Draghi. Fu allora che venne decisa e attuata la privatizzazione di molteplici industrie di Stato. Fu allora che venne smantellato l’IRI, in nome dell’ideologia mercatista alla radice del Trattato di Maastricht che Carli firmò ben cosciente dei rischi cui avrebbe esposto l’Italia. Forse non poté fare diversamente, ma questi sono i fatti e così meritano di essere riportati. E fu allora che, in barba al dettato costituzionale, venne avviata la politica di dismissione del patrimonio pubblico che ha condotto al caso clamoroso di Telecom, un asset strategico, le telecomunicazioni, di cui ci siamo privati, in contemporanea allo scorporo della rete ferroviaria dalla gestione del servizio di trasporti e ad altri capolavori che hanno indebolito l’economia nazionale e favorito l’ingresso di capitali esteri. Si disse all’epoca che tutto ciò veniva fatto in nome della riduzione del debito pubblico e che fosse il prezzo da pagare per affrontare la sfida dell’ingresso nell’euro.

Anche in questo caso, tuttavia, pur non essendo per nulla euroscettici, sappiamo com’è andata a finire. La moneta unica è, di fatto, priva di uno Stato alle spalle e di una Banca centrale in grado di fungere da prestatore di ultima istanza ai singoli Paesi (per quanto il bazooka ideato da Draghi nel 2012 per spegnere l’incendio della speculazione finanziaria nei confronti delle nazioni più indebitate vada, in parte, in questa direzione). Quanto al debito pubblico, dal 2008 in poi, è cresciuto in maniera esponenziale, al pari dello spread. Il punto è che i singoli stati, e il nostro in particolare, hanno le mani legate. Ogni aiuto all’economia, di fatto, si configura come aiuto di Stato, dunque passibile di sanzioni da parte della Commissione Ue. Peccato che questa decisione scellerata abbia favorito, non poco, il dilagare dei partiti cosiddetti “populisti” e del nazionalismo più becero. Perché l’Unione europea, che pure ha avuto uno scatto di dignità durante la fase più acuta del Covid, attraverso il varo del Recovery Plan, viene percepita da molti cittadini come una gabbia che ne imprigiona le potenzialità e ne svaluta i salari. Di recente, l’economista Clara E. Mattei ha dato alle stampe un bel saggio intitolato “The capital order”, l’ordine capitalista, giunto sugli scaffali italiani per Einaudi con il titolo di “Operazione austerità”.

La studiosa spiega molto bene che l’austerità non è una necessità, così come l’ordine capitalista non è un fatto naturale, ma una precisa scelta del potere in difesa del sistema capitalista. Non a caso, i primi ad attuare questa difesa a oltranza di un modello iniquo e pericoloso siamo stati noi e gli inglesi dopo la Prima guerra mondiale, terrorizzati dal successo che stavano mietendo le idee della Rivoluzione d’ottobre e dall’ondata di rivendicazioni sociali e solidali che si era abbattuta, ad esempio, sulle fabbriche italiani. Per questo, l’ex socialista Mussolini, determinato a conquistare il potere con ogni mezzo, capì che per raggiungere il suo scopo doveva allearsi con la borghesia retriva e il padronato della peggior specie, desideroso di ristabilite “l’ordine naturale delle cose” a suon di olio di ricino e manganellate nei confronti di operai e contadini. Un secolo dopo, per ragioni analoghe sul piano dello scopo benché diverse nell’attuazione pratica, è stata condotta la Grecia sull’orlo dell’abisso, svilendo anche il pronunciamento popolare chiesto da Tsipras in merito alle richieste capestro della Troika. Una decisione così miope che Yanis Varoufakis ha adombrato il sospetto, non proprio infondato, che il trattamento inflitto alla Grecia sia stato alla base della scelta di una parte degli inglesi, l’anno successivo, di dire addio all’Unione europea. Abbiamo sventato la Grexit, insomma, ma non siamo riusciti a evitare la Brexit. E da allora ci stiamo giocando l’Europa: un continente sempre più diviso, fragile, in guerra con se stesso, vittima di un drammatico declino demografico e sostanzialmente destinato a perdere peso e prestigio in ambito internazionale. Anche perché, per citare l’Avvocato Agnelli, buon anima, quando “la sinistra fa cose di destra”, poi arriva la destra vera. Non quella liberista di Davos, però: quella nazionalista, in America si direbbe “paleocon”, che vorrebbe tornare indietro di un secolo. Piccole patrie e molti rischi di guerra.

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