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Home » Economia

Auto, con la transizione green 70mila posti a rischio in Italia: il Governo Draghi che fa?

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D’accordo la transizione ecologica – necessaria, imprescindibile, improcrastinabile – ma il passaggio dal motore termico al motore elettrico rischia di far perdere il lavoro a 60/70mila persone in Italia. L’avvertimento arriva direttamente dalle imprese del settore automotive, nello specifico quelle riunite nell’Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica).

S&D

“Le aziende che sentiranno l’impatto sono tra il 20 e il 40% delle 2.200 che producono componenti”, ha sottolineato l’associazione durante il tavolo sull’auto convocato ieri, giovedì 29 luglio 2021, al ministero dello Sviluppo economico.

Il comparto delle quattro ruote vive uno dei momenti più difficili degli ultimi anni, anche se i licenziamenti annunciati alla Gkn di Campi Bisenzio, in provincia di Firenze, e alla Gianetti Ruote, nel Bresciano, vanno inquadrati più come operazioni meramente speculative che come tagli imposti dalla congiuntura.

La produzione di auto in Italia nel disgraziato 2020 – l’anno del Covid – si è fermata a 717mila unità. Ma la contrazione dei volumi si era già fatta sentire l’anno precedente (818mila vetture nel 2019, a fronte del milione del 2018) e andando indietro nel tempo i numeri si fanno malinconicamente sempre più elevati. A giugno 2021, Anfia ha registrato alla voce immatricolazioni un +12,6% rispetto allo stesso mese del 2020 ma un -13,3% nel confronto con giugno 2019.

Ora, peraltro, ai problemi sul fronte della domanda e dei dazi commerciali si sono aggiunti almeno tre fattori: le difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori che blocca il lavoro di molte fabbriche, la transizione ecologica che mangia posti di lavoro e l’incognita sul piano industriale per l’Italia di Stellantis, il gigante nato dalla fusione tra Fca e Psa, il cui amministratore delegato, Carlos Tavares, ha già fatto sapere che vuole ricavare 5 miliardi di euro da operazioni di risparmio sul processo produttivo made in Italy.

I lavoratori di Stellantis ormai convivono da anni con la cassa integrazione (a Mirafiori da 14 anni ormai), ma le incertezze sul futuro pesano sull’intero indotto e sulle tante aziende della componentistica da cui proviene – si stima – il 70% di una qualsiasi auto tedesca.

I sindacati raccontano che alla Denso di Chieti, dove si producono motorini di avviamento, sono stati dichiarati circa 200 esuberi. Alla Bosch di Bari, stabilimento da cui escono pompe per il diesel, rischiano il posto 600 addetti. Alla Vitesco Technologies Italy – due stabilimenti a Pisa che si occupano di ricerca e sviluppo e produzione di iniettori a benzina – è stato presentato un piano da 750 esuberi senza investimenti. E tremano per il loro posto anche gli oltre 600 lavoratori della Marelli di Bari, dove si producono iniettori per motori a benzina e cambi. Per non dire della crisi mai risolta della Blutec (ex Fiat) di Termini Imerese.

Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm – che pure “apprezzano” la convocazione di un primo tavolo al Mise – sollecitano il Governo Draghi a intervenire. Chiedono “strumenti specifici per governare la transizione in modo da evitare la drammaticità di fabbriche chiuse e licenziamenti selvaggi, come quelli a cui abbiamo assistito in queste settimane”.

In altre parole, i sindacati invocano l’introduzione di ammortizzatori sociali che consentano di far passare la tempesta e di scongiurare la cosiddetta “bomba sociale”. Come? Facendo leva, ad esempio, sulla riduzione dell’orario del lavoro e sulla formazione.

Ma la Fiom si spinge più in là, evocando “anche con un ruolo diretto di Invitalia e Cassa Depositi e Prestiti“. “Se c’è un tema di ricapitalizzazione delle imprese, penso che bisogna fare come nel resto d’Europa, dove gran parte delle aziende dell’automotive ha un capitale con partecipazione pubblica“, spiega a TPI Michele De Palma, responsabile automotive delle tute blu della Cgil.

“Non possiamo intervenire, come nella siderurgia, quando si è già determinata una situazione di crisi industriale. Dobbiamo prevenire, intervenire prima della crisi”, osserva il sindacalista della Fiom, facendo un chiaro riferimento all’ex Ilva, ora partecipata dallo Stato tramite Invitalia. “La trasformazione dell’automotive è un’occasione importante di politica industriale per il nostro Paese”, sottolinea De Palma.

Nell’attesa di interventi come questi, i sindacati chiedono al Governo almeno di proseguire con questi confronti, ma anche di portare avanti il confronto a latere con Stellantis (c’è stato un primo tavolo il 23 giugno scorso, poi più nulla).

Già, il Governo. I ministri Giorgetti (Sviluppo economico) e Orlando (Lavoro) hanno salutato con una vittoria dell’esecutivo la decisione di Stellantis di collocare in Italia – a Termoli, sebbene i sindacati avessero indicato Torino – la sua terza gigafactory europea. La fabbrica delle batterie sarà un volano fondamentale di sviluppo per l’automotive italiano, ma da sola non basterà a rivitalizzare un settore che arranca.

Nel Pnrr italiano il tema della transizione ecologica dell’automotive è liquidato con brevi cenni al rinnovamento del parco mezzi pubblico e alla prevista installazione di 31.500 punti di ricarica rapida pubblici. Nessun riferimento, invece, alle ricadute industriali e occupazionali di questo passaggio epocale.

“Riteniamo fondamentale che il rispetto del principio di neutralità tecnologica, vale a dire la transizione verde della mobilità, di per sé sostenibile da un punto di vista ambientale, debba essere sostenibile anche da un punto di vista industriale, infrastrutturale e sociale”, dichiara il viceministro allo Sviluppo economico, Gilberto Pichetto, che ha presieduto il tavolo di confronto di ieri.

Un tavolo al quale, però, non era seduto nessuno del ministero del Lavoro né di quello della Transizione ecologica. Un po’ bizzarro, visto che si parlava proprio di occupazione a rischio e rivoluzione green. L’impressione è che manchi un disegno complessivo. Quello che un tempo si chiamava politica industriale.

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