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Inchiesta TPI – Uccisi dalle aspettative: la strage degli studenti che si tolgono la vita

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Credit: AP

Francesco si sentiva umiliato perché non riusciva a superare un esame. Riccardo aveva mentito ai suoi genitori sulla data della laurea. Claudio era stato punito per aver copiato. Sempre più universitari si tolgono la vita. Schiacciati da un modello performativo che non perdona l’insuccesso. Ecco chi erano e come avremmo potuto salvarli

«Io e Francesco eravamo amici. Ci siamo conosciuti durante la nostra adolescenza: frequentavamo la stessa compagnia e la stessa località di villeggiatura, Piana degli Albanesi. Francesco era un ragazzo che si dedicava molto allo studio, ma nessuno di noi avrebbe mai pensato che lo vivesse così male. Ci ha preso tutti alla sprovvista».

«Era al terzo anno di Economia all’Università di Palermo: a marzo ci sarebbe stata l’ultima sessione per laurearsi in tempo, a lui però mancavano ancora cinque esami. Pretendeva molto da se stesso, non accettava voti bassi, un 18 per lui era una sconfitta. C’erano alcune materie che non riusciva a superare, e questa cosa lo faceva sentire umiliato, frustrato, fuori posto. Me ne parlò sul bagnasciuga, una delle poche volte che riuscimmo a farlo uscire la scorsa estate».

«Da un po’ di tempo si era incupito, era sempre chiuso in casa a studiare. I genitori cercavano di spronarlo, la sua è una famiglia molto presente. Insomma, non era certo un ragazzo solo. Una delle cose che più mi fa star male è pensare che aveva tante vie d’uscita, e una vita davanti. E invece no. Il giorno in cui all’università iniziava la sessione di esami invernale, lui si è tolto la vita». 

Il dolore è ancora troppo forte. Giovanni Basile, 22 anni, ha bisogno di fare qualche pausa per prendere il respiro. Ci sta raccontando la storia del suo amico, il coetaneo Francesco Mancuso, che lo scorso 16 gennaio ha deciso di porre fine alle sue sofferenze interiori con un gesto estremo che nessuno avrebbe mai previsto.

«Ha lasciato un biglietto con scritto “Fallimento, università e politica”. Francesco era molto interessato alla politica, ne parlavamo spesso: lui liberista, io socialista. Diceva che noi giovani, in Italia, non abbiamo futuro. Era una persona intelligente. Sapeva benissimo che poteva affidarsi a uno specialista per farsi aiutare: nella nostra compagnia di amici alcuni sono in terapia, ne abbiamo sempre parlato apertamente. Mi domando perché non l’abbia fatto anche lui».

Due settimane dopo la morte di Francesco Mancuso, una ragazza di 19 anni – di cui non sono state rese note le generalità – è stata trovata senza vita nei bagni dell’Università Iulm di Milano, impiccata con una sciarpa a una maniglia appendi-abiti.

Prima di uccidersi, la giovane si è tolta il giaccone e lo ha piegato a terra di fianco alla borsetta. Accanto al suo corpo ha lasciato un biglietto nel quale saluta parenti e amici, chiede «scusa» e rimanda a «fallimenti personali e nello studio».

L’episodio ha sconvolto non solo l’ateneo milanese, ma l’intero mondo della scuola e dell’universiutà. In una lettera aperta ai suoi studenti, il rettore dello Iulm, il popolare critico cinematografico Gianni Canova, ha sottolineato che il suicidio della ragazza ha «fatto emergere un disagio che non può essere ignorato» e ha promesso: «Faremo il possibile perché l’amore per la vita si torni a respirare in ogni angolo del nostro campus».

Nei giorni successivi diversi movimenti studenteschi hanno organizzato assemblee in tutta Italia per discutere di un fenomeno, questo dei suicidi tra i giovani e in particolare tra giovani universitari, che negli ultimi tempi si è intensificato a ritmi spaventosi. 

I numeri
Lo scorso 7 ottobre nelle acque del fiume Reno, a Bologna, è stato trovato il cadavere di uno studente abruzzese di 23 anni: aveva annunciato alla famiglia che si sarebbe laureato proprio quel giorno, ma in realtà non era in programma nessuna proclamazione.

Circa due mesi prima, il 25 luglio, un trentenne iscritto al terzo anno di Medicina a Pavia si è tolto la vita nel collegio dove era ospite, probabilmente di fronte alla paura di non restare al passo con gli esami e di perdere la borsa di studio.

E ancora: nel febbraio del 2022 il 17enne Claudio Mandia, di Eboli, si è impiccato all’interno del college che frequentava a New York: era stato punito con l’isolamento per aver copiato un compito di matematica e temeva di essere espulso.

Dopo il recente suicidio allo Iulm, la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, ha annunciato l’istituzione di presìdi per il benessere psicologico all’interno delle università: «Aumentano le fragilità legate al post-Covid e alla necessità di misurarsi con un mercato del lavoro che richiede performance sempre più alte. Ma aumenta soprattutto il timore del giudizio negativo degli altri. Il nostro obiettivo – ha spiegato la ministra – è sostenere chi ne ha bisogno, e aiutare a far capire che il merito è un percorso, ed è soprattutto una conquista con se stessi, non il risultato di una sola performance».

Secondo l’Unicef, ogni 11 minuti, da qualche parte nel mondo, c’è un adolescente che si getta da un ponte, o che ingerisce volontariamente un mix di farmaci, o si impicca: i suicidi giovanili sono 46mila all’anno.

Il suicidio è la seconda causa di decesso tra i 15 e i 24 anni (la prima sono gli incidenti stradali): si tratta di un dato ormai consolidato da tempo, ma cresciuto esponenzialmente dopo la pandemia di Covid-19 che ci ha costretto a stare chiusi in casa per lunghi periodi.

Numeri precisi e aggiornati non ce ne sono, perché l’annuario statistico dell’Istat – basato sulle comunicazioni ufficiali delle autorità sanitarie – si ferma al 2018 (quando i suicidi sotto i 24 anni furono 204). Per gli anni seguenti ci si può affidare solo alle cronache giornalistiche, alle quali per forza di cose sfugge qualche caso, ad esempio quelli (comprensibilmente) tenuti riservati dalle famiglie delle vittime.

Per comprendere la portata del fenomeno, tuttavia, ci sono i dati sui suicidi tentati ma non riusciti, o progettati ma non realizzati. Molto significativi sono quelli tenuti dal Bambin Gesù di Roma, il più grande ospedale pediatrico d’Europa: qui, nel biennio 2018-2019 erano stati registrati 369 accessi per ideazione suicidaria o tentato suicidio; ebbene, dopo il lockdown, nel biennio 2020-2021 gli accessi di questo tipo sono aumentati a 649, vale a dire quasi uno al giorno, per un incremento del 75 per cento.

Il pronto soccorso dell’ospedale nel 2011 aveva gestito 155 consulenze neuropsichiatriche su minorenni; nel 2021 le consulenze sono state 1.824: fra queste, i casi di ideazione suicidaria, tentativo di suicidio e comportamenti autolesivi nei giovani tra i 9 e i 17 anni sono aumentati di 40 volte. E l’età media di chi prova a togliersi la vita è di circa 15 anni. Dunque la strage fra gli universitari ha radici profonde, in un disagio che inizia già negli anni della scuola dell’obbligo.

Ignorati da tutti
«Questi ragazzi vivono in una società in cui non sono considerati», sospira il professor Armando Piccinni, docente di Psichiatria all’Università medica internazionale Saint Camillus di Roma e presidente della Fondazione Brain Research, che si cura di tenere un osservatorio nazionale sui suicidi.

«Nella nostra società – argomenta il professore – siamo molto centrati sul mondo degli adulti, sulla politica, la finanza, l’economia, ma molto poco sull’attenzione alle nuove generazioni, sull’istruzione, sulla cura e il trattamento del mondo affettivo dei ragazzi e sul loro sviluppo emotivo».

«I giovani hanno bisogno di qualcosa in cui credere. La storia è punteggiata da grandi ideali portati avanti proprio dai ragazzi con entusiasmo, forza, desiderio di cambiamento. Oggi però questi ideali non ci sono più, o ce ne sono meno. L’unica eccezione è la battaglia per il clima di Greta Thunberg… Vede quanto seguito ha fra i giovani? Non è un caso…».

«Il fatto – prosegue lo psichiatra – è che il giovane vuole essenzialmente emergere dalla sua ristretta società: prima quella famigliare, poi quella rionale, poi quella cittadina. Vuole dire la sua. Ma nel momento in cui intervengono fattori stressanti come gli insuccessi scolastici, l’assenza di luoghi di socializzazione, la mancanza di lavoro, ecco che si possono manifestare dei disturbi. Che, ovviamente, sono molto più frequenti in quei soggetti che hanno già in partenza una vulnerabilità genetica».

Se questo è il quadro generale, aggiunge Piccinni, «si figuri che impatto hanno avuto negli ultimi tre anni eventi per noi anomali come la pandemia e la guerra».

«Questi sono stati fattori stressanti di massimo livello. In particolar modo il lockdown, che ha privato i giovani della terapia tra pari». Cioè? «I ragazzi e le ragazze da chi imparano a essere un uomo o una donna? Dai genitori e dai loro coetanei, con i quali si confrontano continuamente sul come ci si comporta, che linguaggio si usa, come ci si veste. Ci si modella rispetto agli altri, o per similitudine o per contrasto. Con la pandemia questo è venuto meno. Molti ragazzi mi ripetono la tessa frase: “Da due anni non combino niente, ho perso due anni della mia vita, è come se non avessi vissuto”. Lei capisce che un “buco nero” nella propria vita a 64 anni o a 48 è una cosa, ma a 16 o 18 o 21 anni è una vera e propria tragedia. Di fronte a questa considerazione, c’è il giovane più ottimista che reagisce, ma quello più pessimista che vede il danno irreparabile e la sua vita definitivamente rovinata…».

Perché tanti suicidi all’università? Secondo il professor Piccinni, può c’entrare il rapporto con la famiglia: «Nella nostra società – spiega – c’è una sorta di scambio biunivoco per cui la famiglia “dà” al giovane e questo poi sente di dover “restituire” alla famiglia. Così capita che il ragazzo che all’università non va avanti si senta in colpa rispetto ai genitori, perché “prende” ma non “dà”».

Fenomeno diffuso
Secondo un sondaggio svolto nel 2018 dal portale Skuola.net, il 35 per cento dei ragazzi ammette di aver mentito almeno una volta sull’andamento del proprio percorso verso la laurea: il 18 per cento lo ha fatto più di una volta, il 17 per cento lo fa sistematicamente.

Fra questi, uno su quattro si limita a gonfiare i voti presi agli esami, mentre il 18 per cento mente sul numero effettivo di materie superate e il 7 per cento ha fatto intendere alla propria famiglia che la data della laurea era più vicina del previsto.

All’origine di queste bugie c’è spesso la difficoltà nel gestire le aspettative di cui ci si sente portatori: il 28 per cento degli intervistati afferma di aver alterato la realtà perché non vuole deludere i genitori e il 13 per cento si vergogna per non essere riuscito negli studi accademici.

Ripercorrere le cronache dei suicidi avvenuti negli ultimi anni nel mondo universitario è impressionante: il copione è sempre lo stesso, o quasi.

Il 9 ottobre 2021 uno studente 29enne originario di Pescara e iscritto a Economia a Forlì si è ucciso lanciandosi da un ponte a Bologna: aveva invitato la famiglia per la sua laurea, ma in realtà aveva sostenuto solo pochi esami.

Due mesi e mezzo prima, il 27 luglio 2021, nelle campagne di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa, è stato ritrovato il corpo carbonizzato di Francesco Pantaleo, studente 23enne di Marsala: aveva detto ai genitori di essere a un passo dalla laurea, quando invece doveva ancora superare diverse materie.

Solo la settimana precedente, il 20 luglio, un 25enne si è tolto la vita all’interno della facoltà di Lettere dell’Università di Napoli: lo studente aveva appena annunciato alla famiglia la discussione della tesi, malgrado avesse davanti a sé diversi esami ancora da dare.

Ma il disagio psicologico, come abbiamo visto guardando ai dati sui tentati suicidi, inizia già negli anni dell’adolescenza.

Un sondaggio dell’Unicef ha rivelato che il 50 per cento dei teenager si sente triste, preoccupato, o angosciato, e uno su sette soffre di problematiche legate alla salute mentale. Il 10 per cento degli intervistati – bambini e ragazzi tra i 10 e i 19 anni – si sente frustrato, il 14 per cento angosciato, il 12 per cento triste, e solo il 28 per cento ottimista.

Le circostanze che più influiscono in negativo sono le difficoltà economiche personali o della famiglia (17 per cento), il senso di isolamento (19 per cento), la distanza dalla famiglia e dagli affetti (8 per cento) e i litigi e le tensioni all’interno della famiglia (7 cento). Tuttavia il 41 per cento degli adolescenti afferma di non aver chiesto aiuto a nessuno. 

Che fare? Secondo il professor Stefano Vicari, primario di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza al Bambin Gesù, occorre prima di tutto «investire sulla salute mentale dei ragazzi: fare in modo che la famiglia sia una comunità dove la gente si vuole bene. Se mamma e papà lavorano fino alle 20, i bambini con chi stanno? Nei Paesi anglosassoni – spiega il professore – alle 5 del pomeriggio si ferma tutto e si va a casa dai figli. E fino alle 5 ci sono servizi sociali a sostegno della famiglia. Qui dai noi, invece, le scuole sono spesso luoghi fatiscenti. Inoltre, viviamo la scuola unicamente come prestazione: si pensi che il Governo ha aggiunto al ministero dell’Istruzione la denominazione “merito”, sottolineando l’aspetto della competizione. Ecco, occuparsi di questi argomenti significa fare prevenzione».

Paura di deludere
Stefano Faggin, 56 anni, padovano, titolare di un’azienda informatica, non sa con certezza se suo figlio Riccardo è morto per un incidente stradale e per un atto deliberato. Lo scorso autunno, nella notte fra il 28 e il 29 novembre, il ragazzo, 26 anni, ha perso la vita schiantandosi con la sua auto contro un platano.

Il giorno seguente avrebbe dovuto laurearsi. O almeno questo è ciò che aveva raccontato ai suoi famigliari, che per la gioia avevano addirittura decorato l’esterno della loro casa con dei fiocchi rossi. Ma quel giorno all’università non era in programma nessuna laurea. Riccardo, iscritto alla facoltà di Infermieristica a Padova, era indietro con gli esami: una situazione che i genitori hanno tragicamente scoperto solo dopo.

«Non siamo in grado di dire se il suo sia stato un gesto deliberato o un incidente», dice a TPI il padre, «la dinamica si presta a entrambe le ipotesi. Conoscendo Riccardo, mi sembra difficile che si sia suicidato, ma non posso escluderlo. Certo, non stava passando un momento di serenità: aveva iniziato con qualche bugia e la realtà era un po’ diversa da quella che ci aveva rappresentato».

«Era un ragazzo molto solare, impegnato in parrocchia, l’infermieristica gli piaceva, sembrava fosse la sua strada. Nei primi anni di università lo vedevo proprio felice. Fino al 2019 aveva avuto un percorso normale: aveva superato buona parte degli esami, anche con voti abbastanza buoni, e concluso il tirocinio con giudizi positivi da parte dei tutor che lo avevano seguito. Poi con il lockdown e il blocco delle attività sociali si è interrotto quel “traino” che era andare all’università in presenza. Sa, è un po’ come fare attività motoria: se ti iscrivi in palestra sei come obbligato e la fai, altrimenti vai una volta a correre e poi non ci vai più». 

«I ragazzi – prosegue il signor Faggin – sono una sintesi di tanti fattori: l’università, le amicizie, l’amore, le fragilità di ognuno di noi. La pandemia per Riccardo è arrivata in una fase di transizione. Aveva avuto una ragazza e la storia era finita, stava cambiando compagnia di amici… Il lockdown ha complicato quel momento di passaggio. Ci sono momenti della vita in cui sembra che ti cada tutto addosso: forse per lui è stato così».

«Ci aveva parlato di un esame che non riusciva proprio a superare. Vedevo il suo disagio, ma sembrava coerente con altri casi: so di altri suoi compagni di corso che hanno dato quella materia cinque o sei volte prima di superarla. Io cercavo di dargli motivazioni, di smuoverlo per fargli fare qualcosa, lui invece sembrava un po’ più statico. Poi a giugno del 2021 ci ha detto che finalmente era stato promosso e che poteva iniziare a pensare alla tesi».

«Inizialmente sembrava sollevato, ma alcuni segni in senso contrario li leggo meglio adesso col senno di poi: l’effervescenza di prima non c’era più. Forse con il lockdown noi genitori ci eravamo come abituati a vedere i ragazzi un po’ spenti… Siamo una famiglia molto unita, ci vogliamo bene, non ci sono mai stati problemi. Credo che Riccardo sia entrato in depressione e, in questa sua sofferenza, la paura di deluderci lo ha spinto a creare una realtà parallela. Ad alcuni amici aveva confidato che si era preso una pausa dall’università, ma purtroppo con questa sua nuova compagnia noi avevamo pochi contatti e non è mai capitato che, per dire, a qualcuno di quei ragazzi sfuggisse qualcosa in nostra presenza…».

«Chissà – prende fiato il padre –, forse se non ci fosse stato il lockdown sarebbe stato tutto diverso». «Dopo la morte di nostro figlio, io e mia moglie abbiamo molto sofferto il tormento e la vergogna di non essere riusciti a intercettare quel suo disagio. Abbiamo sentito di aver fallito. Poi, anche grazie al sostegno di uno psicologo, ho capito che Riccardo era una persona di 26 anni con il proprio vissuto».

«Io e mia moglie ne parliamo perché ci aiuta a metabolizzare quello che è accaduto, ma anche per fornire un punto di vista che possa aiutare qualcun altro: il tema fondamentale credo sia che i nostri figli capiscano che quando hanno delle difficoltà possono parlarne in famiglia. Noi genitori dobbiamo cercare di fare il nostro lavoro aprendoci all’ascolto, ma dall’altro lato se non scatta la scintilla nei ragazzi è difficilissimo…».

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