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Il racket sui funerali della mafia catanese

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Credit: Unsplash

Agenzie costrette a pagare il pizzo, malati terminali uccisi sull’ambulanza, esequie gestite in toto dai boss. Ecco il business della mafia sui morti in provincia di Catania

Chi alza lo sguardo sullo sfondo di Biancavilla vede l’immenso vulcano nero che si staglia impetuoso incutendo a volte anche paura. A spaventare, però, nel piccolo paese alle pendici dell’Etna, è anche l’altra ombra nera, per vedere la quale non serve alzare la testa. Anzi, la vede solo chi l’abbassa.

S&D

L’ombra della mafia e del pizzo è ben visibile e non lascia in pace neanche il santo della città, san Placido. «Tutti i commercianti sentono bussare ai loro negozi in tre occasioni: a Natale, a Pasqua e a San Placido», dice chi nel paese ci vive. «Una “offerta per i detenuti” viene richiesta tre volte all’anno ma non è un’offerta, è un’imposizione che non c’entra nulla con le feste». 

Il silenzio la fa da padrona tra i negozi del popoloso paese catanese, dove tra chi scappa per trovare lavoro e i tanti cartelli “affittasi” e “vendesi”, uno dei pochi “business” rimasti è quello dei funerali. E la mafia negli anni lo ha capito bene. Proprio le agenzie funebri di Biancavilla, Paternò e Adrano (più di 100mila abitanti insieme) da più di un decennio sono nel mirino dei clan mafiosi, che per ogni funerale chiedono la propria parte, pretendendola con le buone o con le cattive. 

Come l’Etna, che a volte scatena le sue fiamme, anche la mafia del clan Mazzaglia-Tomassello-Toscano, eredi della criminalità organizzata catanese del clan Santapaola, usa il fuoco come arma. «Sono arrivati a chiedere anche 300 euro per un funerale», racconta chi ha permesso l’arresto di dodici persone, Luca Arena, il più giovane testimone di giustizia che ha denunciato quanto avveniva. «All’inizio dell’attività pagavamo, quando ho detto no mi hanno bruciato il carro funebre». 

La prima volta che la mafia bussa alla porta di Arena, lui ha 19 anni e lavora con il fratello nell’agenzia funebre di famiglia. «Da noi pagare il pizzo è la normalità», spiega. «I boss arrivavano ad ogni funerale, dipende in quale paese lo facevi, se Adrano o Paternò, dovevi pagare uno o l’altro boss. Loro agiscono così: guardano i manifesti, vedono chi ha fatto il servizio e allora vanno a bussare». 

Il “toc-toc” della mafia alla porta delle agenzie funebri nel catanese è ormai consuetudine. Quel socio occulto costrinse Luca e il fratello a pagare circa 130mila euro di pizzo in sei anni di attività. «A sbagliare è stato mio padre», ricorda Arena. «Li ha abituati così. Io volevo fare il mio lavoro libero. Eravamo una delle migliori agenzie, ma eravamo sempre senza soldi perché dovevamo pagare la tangente, come se fosse una tassa». 

Dall’agosto 2016 è proprio lui a raccontare tutto ai carabinieri: il fratello minore che vuole spodestare quella mafia secolare raccontata già cinquant’anni fa da Pippo Fava, che pagò le sue denunce con la morte. La denuncia di Arena condurrà al blitz “Onda d’urto”, che farà finire in carcere dodici persone poi condannate in primo grado, e al blitz “Reset” (quando alla denuncia si accoderà pure il fratello Giuseppe) che porterà a diciassette il numero dei mafiosi arrestati. 

In questa storia nera c’è però una ambulanza che continua a muoversi anche quando i boss sono dietro le sbarre. È l’ambulanza dell’agenzia funebre della famiglia Arena, intestata al fratello Giuseppe, ma in mano ai boss, che, in mancanza dei soldi del pizzo, decidono di appropriarsi del mezzo, utilizzato per il servizio di trasporto dei malati terminali nelle proprie case.

Quell’ambulanza era inizialmente uno dei maggiori successi dell’agenzia funebre, perché offriva un servizio completo ai parenti, ma presto si trasforma in quella che nelle indagini verrà chiamata «ambulanza della morte». 

«Quando abbiamo iniziato la nostra attività accompagnavamo i vecchietti dal vicino ospedale nelle proprie case», spiega Arena. «Erano malati terminali, anche se, ad esempio, ci fu un caso in cui il paziente rimase in vita per altri otto mesi. Quando qualcuno di loro poi moriva, i parenti si rivolgevano a noi. Il nostro è un lavoro in cui bisogna saper aspettare». 

A non voler aspettare erano invece i due ambulanzieri che operavano per conto dei boss all’interno del mezzo, uno dei quali è stato condannato all’ergastolo per gli omicidi avvenuti a bordo «Nel tragitto breve che portava dall’ospedale fino a Biancavilla e Adrano, veniva iniettata dell’aria in vena, 6-7 volte, così da uccidere i vecchietti in fin di vita».

Bastavano 10 minuti, e in quel breve tratto di strada mai asfaltato impregnato dalla cenere dell’Etna si consumavano delitti atroci. Poi le finte facce tristi all’arrivo a casa dei parenti dei defunti, i quali seguivano con la propria auto l’ambulanza in quel tragitto ma non potevano vedere cosa avveniva dentro. 

«Tutto questo avveniva per 300-400 euro», ricostruisce chi ha denunciato. «Poi il morto veniva vestito a casa dagli stessi barellieri e in seguito, sempre loro, vendevano il cadavere alle agenzie funebri di Adrano o Biancavilla: chi offriva di più ai barellieri poteva fare il funerale». 

I familiari dei defunti non hanno mai sospettato nulla: sapevano che il proprio caro era in fin di vita e la notizia della morte li tramortiva a tal punto che non volevano più sapere nulla di ciò che stava accadendo: affidavano ai barellieri tutti i compiti ordinari.

«Questi aprivano le porte dell’ambulanza e dicevano “purtroppo è morto”», racconta ancora Arena. «Tra la vestizione, il trasporto e la vendita riuscivano a dividersi 600 euro. Funziona così a Biancavilla. Paradossalmente io dovevo pagare pure per i funerali che mi commissionavano loro, uccidendo le persone nella mia ambulanza che mi avevano sottratto». 

La Procura ha accertato che queste pratiche sono avvenute per almeno cinque anni, ma secondo alcuni testimoni la storia andava avanti da diverso tempo. In un paese, Biancavilla, dichiarato “sito di interesse nazionale” a causa di un minerale naturale, estratto da una cava, con cui sono state costruite le case del paese, poi dichiarato cancerogeno, i malati terminali non sono pochi e il business era florido. 

«A insospettirmi – dice Arena – era il fatto che i morti erano già vestiti, in pochissimo tempo. Il mio ex dipendente lo sapeva quello che accadeva ma non ha denunciato per paura».

Il responsabile di queste uccisioni, Davide Garofalo, è stato condannato all’ergastolo in primo grado per omicidio aggravato ed estorsione aggravata dal metodo mafioso.

«L’obiettivo era quello di fare la bella vita», spiega chi conosce la città: «Una vita fatta di sfarzo, di droga, di scommesse e videopoker. Con 5-6 morti al mese, tutti in nero, era tutto più facile». Macchine lussuose, motori, droga e vita sfrenata: i boss del catanese amavano la vita facile, anche a costo di uccidere delle persone, perché tanto «dovevano morire lo stesso». 

Ma questa storia non ha un lieto fine neanche per Luca Arena: «Io ho denunciato per salvare la mia vita. Voglio essere tutelato dallo Stato con un progetto serio, che invece non c’è stato».

Negli anni la sua versione è stata pure confermata da un collaboratore di giustizia, che mentre guardava un servizio tv in carcere si è sentito dire da uno dei boss dietro l’ambulanza della morte: «Quello che sta dicendo quel pezzo di merda è la verità». Chi denuncia, per la mafia, rimane sempre un pezzo di merda.

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