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Perché non facciamo più figli

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Prospettive lavorative instabili. Impossibilità di programmare il futuro. E la paura di non poter assicurare adeguate opportunità ai bambini. Così sempre più giovani rinunciano a diventare genitori. Come scelta consapevole di vita

«Sin da piccole sentiamo che dovremmo essere mamme, ma la situazione non promette bene e non vorrei far ricadere i miei problemi, la mia sofferenza, sulla vita di mio figlio». Maria Vittoria è una studentessa universitaria. Vive a Roma e ha poco più di vent’anni: troppo presto per pensare a una famiglia. Eppure l’incertezza sul futuro o il timore che le proprie difficoltà possano gravare sulla vita di un’altra persona la rendono scettica sulla possibilità di riprodursi. «Penso anche che se già in partenza ci si pone tutti questi problemi a quel punto non farai mai un figlio, e in questo modo non farai tantissime cose, per quanto il figlio abbia rilevanza maggiore. Ma se considero tutti i problemi su cui potrei incorrere ovvio che dico, forse non lo faccio», conclude. Riccardo, suo coetaneo e collega, ha un’opinione simile, e non vorrebbe condannare un figlio alla stessa precarietà che sente gravare intorno a se stesso. «Sono contrario alla scelta di avere figli: le motivazioni sono tantissime, ma la principale è che in una situazione del genere non mi sento nella condizione di farlo, con prospettive e un futuro molto incerto. Ho visto situazioni in cui forse decidere di avere per forza un figlio è stata una scelta egoista. A volte è il contrario, si accusano le donne che non hanno figli di egoismo. Io la vedo dal lato opposto, volere per forza un figlio se non si hanno condizioni economiche o una situazione adeguata è un errore. Non sapendo quale sarà il mio futuro – aggiunge – sento che non vorrei averne».

S&D

Maria Vittoria e Riccardo sono due dei protagonisti dell’archivio Lunadigas, un lavoro di ricerca e documentazione avviato nel 2016 in Sardegna dalle registe Nicoletta Nesler e Marilisa Piga. In tempi non sospetti, quando il dibattito sulla denatalità in Italia non era acceso come quello che il record negativo di nascite ha stimolato – meno di 400mila nati nel 2022 per la prima volta dall’unità del Paese, circa 200mila in meno rispetto al 2018 e meno della metà rispetto al 1964, quando sono nati circa un milione di bambini – le due autrici capirono l’importanza di esplorare una realtà densa e variegata, da approfondire senza sacrificarne la complessità, astenendosi da ogni forma di giudizio. «Abbiamo capito che c’erano molte cose da indagare e non abbiamo mai smesso», racconta Nesler a Tpi. Prima di iniziare a girare il documentario in Italia e costruire l’archivio (consultabile al sito www.lunadigas.com), che negli anni ha raccolto centinaia di testimonianze in tutto il mondo, le due autrici si sono dedicate alla ricerca del termine adatto per definire una donna che sceglie o che si ritrova a non avere prole, perché in italiano non esiste una parola per definire questa condizione in modo neutro, spiega l’autrice. Vale lo stesso per le due definizioni inglesi che circolano sempre più nei blog e negli altri simposi in cui le donne si confrontano su una situazione che fino a poche decine di anni fa era considerata anomala, ma che adesso è sempre più vista come un’opzione di vita percorribile.

“Childless” e “childfree”

Nel mondo anglofono, le donne “childless” sono quelle che avrebbero voluto riprodursi ma non hanno potuto per cause indipendenti dalla loro volontà: biologiche, personali, sociali. La definizione “childfree” si usa invece per parlare di coloro che hanno scelto consapevolmente di non dare luce a un figlio o a una figlia e che rivendicano la propria decisione, rifiutando lo stereotipo cucito loro addosso quando erano piccole, secondo cui una donna è realizzata e completa solo quando diventa madre. Nicoletta e Marilisa hanno attinto alla cultura pastorale sarda per trovare il proprio linguaggio, scegliendo il termine utilizzato dai pastori per descrivere le pecore che in una stagione precisa non si riproducono. «I nomi in italiano comportano una negazione, siamo non madri, siamo senza figli. Avevamo bisogno di un nome che ci definisse in maniera neutra. Non “senza figli meglio”, ma “senza figli anche”, spiega Nasler. Il tema è difficile da indagare per la persona stessa che ha compiuto questa scelta, e ogni donna è spinta da motivazioni molto personali che incrociano quelle sociali, ma che non sempre hanno a che fare con la sola condizione economica. Si tratta piuttosto di una più generale percezione della società in cui si vive. «C’è un tema legato alla mancanza di aiuti e sostegni, ma purtroppo quella è la base. Di certo molte donne guardano a questo mondo come uno sviluppo insoddisfacente della possibilità civile di condivisione. “Ma perché?”, si chiedono. “Perché mettere al mondo un altro individuo in una condizione che diventa difficile anche da raccontare, in cui ti senti disorientata nel passare contenuti?”», conferma la documentarista.

Tra “childless” e “childfree” esiste una zona grigia in cui il confine tra “potere” e “volere” non è così netto e in cui la scelta di non avere figli non risulta così esplicita e consapevole, di cui fa parte anche il ragionamento di Riccardo e Maria Vittoria. La percezione di instabilità favorita dalla congiuntura storica ed economica non spinge a pensare di fare figli in modo spontaneo, e insiste su una generazione che di per sé non vede la procreazione come unico sbocco possibile e naturale della propria esistenza. Ma non sempre le persone che non hanno figli realizzano di star percorrendo una strada diversa da quella intrapresa dai propri genitori anche per via di un contesto differente e più instabile.

Instabilità e “ansia da status”

Secondo Alessandra Minello, esperta di demografia e autrice del saggio “Non è un Paese per madri” (Laterza, 2022), la scelta di non mettere al mondo un figlio, in Italia, è legata a un’incertezza che non ha tanto a che fare con il reddito effettivo di una donna o di una famiglia o con i costi dell’acquisto di un pannolino, del materiale scolastico o degli abiti di un bebè, ma al senso di instabilità e al timore di non poter essere all’altezza delle aspettative che si hanno sulla crescita della prole. «I dati dicono che dove ci sono coppie con entrambi i partner a tempo indeterminato la transizione alla genitorialità è più semplice rispetto a tutte le altre combinazioni. Sappiamo bene che nella nostra storia recente, tipicamente i figli nascevano dove l’uomo lavorava e la donna aveva esplicitamente un ruolo di cura, quindi questa combinazione di due lavori a tempo indeterminato segna un grande cambiamento e indica che c’è necessità di un doppio stipendio», continua l’autrice. «Se avere un figlio è un progetto a lungo termine, se so di avere stabilità economica, è più facile prevedere questo tipo di spese. Ma quando si parla di incertezza non si parla tanto di avere o non avere il contratto a tempo indeterminato. Se vivo in un’area con stabilità lavorativa e so che in caso di difficoltà sarò riassorbita dal mercato del lavoro sarà più facile governare l’incertezza, che non è solo quella vissuta ma anche quella percepita, che riguarda anche quanto viene veicolata dai media», sottolinea Minello. C’è dall’altra parte quella che viene definita “status anxiety”, il fatto di voler dare molto ai propri figli o di voler offrire loro quanto meno la vita che hanno avuto i genitori, ma il timore di non poter rispettare un determinato progetto di vita. «Questo può far sì che succeda quello che sta succedendo adesso», conclude.

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