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I femminicidi aumentano ma i centri antiviolenza chiudono

Immagine di copertina
Credit: AGF

Solo a marzo sono state uccise 14 donne in Italia. Una ogni due giorni. Nonostante il Piano nazionale che dal 2013 finanzia le case rifugio a scopo di prevenzione. I fondi però sono scarsi e lenti ad arrivare. Mentre le strutture faticano a sopravvivere

I centri antiviolenza (Cav) sono spazi che forniscono consulenza psicologica, assistenza legale, creano percorsi di orientamento al lavoro, fanno ricerca e raccolgono dati, costituiscono reti e dialogo sui territori, si occupano di prevenzione e sensibilizzazione e accolgono le donne che hanno subito violenza. Sono luoghi in cui necessità, domande, servizi si incontrano ed è lì che le operatrici provano a dare ascolto, risposte e supporto.  A fronte di tutte le opportunità che i Cav mettono a disposizione per le donne che fuoriescono dalla violenza non vi è nessun tipo di riconoscimento a livello istituzionale. In relazione ai fondi che ricevono l’unica cosa certa è che scarseggiano.

S&D

Secondo il report “Cronache di un’occasione mancata. Il sistema antiviolenza italiano nell’era della ripartenza”, pubblicato a novembre 2021 da ActionAid, dall’entrata in vigore del Dl 93/2013, che ha posto le basi dell’attuale sistema antiviolenza, il Dipartimento per le pari opportunità ha destinato il 75% delle risorse allocate a interventi di protezione. Solo il 14% è stato programmato per la realizzazione di interventi di prevenzione, il 2% è stato destinato ad attività rientranti nell’asse assistenza e promozione, mentre del restante 9% non sono disponibili informazioni.

«Nel 2013 quando è stata approvata la legge cosiddetta sul femminicidio ed è stato istituito il Piano nazionale antiviolenza, il Governo ha erogato dei fondi per finanziare i centri antiviolenza e le case rifugio», spiega a TPI Mariangela Zanni, consigliera nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, che riunisce in un unico progetto più di 82 organizzazioni di donne e 108 centri che affrontano il tema della violenza maschile sulle donne secondo l’ottica della differenza di genere. «I primi anni sono stati 10 milioni poi, l’anno scorso, sono arrivati 30 milioni di euro per tutta Italia». Lo step successivo è costituito dalla ripartizione fra Regioni che a loro volta dovrebbero poi distribuire i fondi alle strutture di riferimento nel territorio. Come fa notare Zanni, questi passaggi non sono immediati: «Le Regioni devono presentare una programmazione che gli permetta di ricevere i fondi messi a loro disposizione. Ogni regione riceve una determinata somma sulla base di due criteri: in relazione al numero di persone residenti e sulla quantità di strutture presenti nel territorio».

Un problema di distribuzione
I fondi destinati al sostegno dei Cav sono variati nel corso degli anni e questi cambiamenti sono dovuti a scelte politiche. Non c’è mai stato un effettivo calcolo del fabbisogno di una casa rifugio (Cr), una stima su quanto costa il funzionamento di un centro antiviolenza. «Ogni anno, sulla base delle risorse disponibili e un po’ anche grazie alle pressioni che venivano fatte a livello nazionale dalle reti o da altri organi istituzionali, il governo ha deciso in maniera sempre unilaterale di aumentare il budget», ci spiega la consigliera nazionale di D.i.Re.

Ma ricevere questi finanziamenti non significa immediatamente disporne e impiegarli in attività e servizi. Le difficoltà sono molteplici, tra queste la discrezionalità delle Regioni sull’erogazione. «Alcune Regioni, quelle più virtuose, hanno fatto subito la programmazione in cui dicevano come avrebbero speso i soldi e quindi poi li hanno distribuiti nei territori; per altre, invece, non è stato così», continua Zanni per farci comprendere quali sono gli intoppi cui si va incontro a livello burocratico.

Questa disomogeneità a livello nazionale ha determinato la mancanza di una politica uniforme nei territori, così non tutti i centri antiviolenza sono stati sostenuti allo stesso modo.«Abbiamo avuto casi di centri, soprattutto al Sud, che stanno ancora aspettando i fondi del 2018», ricorda la consigliera nazionale di D.i.Re. «Inoltre, la data del documento si discosta sempre di almeno due anni dal momento in cui i centri possono utilizzare questi fondi». Dai dati raccolti da ActionAid, al 15 ottobre 2021, le Regioni hanno erogato il 74% dei fondi nazionali antiviolenza delle annualità 2015-2016, il 71% per il 2017, il 67% per il 2018, il 56% per il 2019 e il 2% per l’annualità 2020.

La pandemia poteva essere un punto di svolta nella presa di consapevolezza da parte del governo sulla violenza di genere. Invece, come la definisce ActionAid, è diventata un’occasione mancata per i centri antiviolenza. Un esempio ne sono i 3 milioni del Dl Cura Italia del marzo 2020 per le spese di sanificazione, acquisto mascherine e gel disinfettante delle Case rifugio: solo l’1%, circa 25mila euro, sono arrivati a destinazione. I tempi di erogazione delle risorse stanziate nel 2020 per il funzionamento ordinario di Cav e delle Cr sono tornati ad allungarsi: sono serviti in media 7 mesi per trasferire le risorse dal Dipartimento Pari Opportunità alle Regioni. E solo il 2% è stato erogato, limitatamente a Liguria e Umbria.

Questi fondi da soli non bastano a coprire il fabbisogno totale delle strutture, vanno a sostenere una parte delle attività, ma diventa fondamentale anche reperire altri finanziamenti, da enti pubblici, dai comuni. Altra fonte di sostentamento per Cav e Cr sono le donazioni da privati e il fundraising. Secondo l’esperienza di Zanni «solo dal 2013 il tema della violenza di genere è arrivato in modo preponderante all’attenzione dell’opinione pubblica. Fino a quel punto gli accessi che si riscontravano nei centri antiviolenza erano numericamente limitati rispetto ad adesso e quindi poteva essere svolto un lavoro di tipo volontario. Oggi è molto difficile mantenere l’aspetto del volontariato. A un aumento delle richieste di aiuto da parte delle donne non è coinciso un aumento proporzionale delle risorse».

Futuro incerto
Il Piano nazionale antiviolenza adottato per il triennio 2021-2023, parte dalle 3P della Convezione di Istanbul e prevede: prevenzione, protezione e sostegno, punizione e contrasto. Il piano strategico italiano aggiunge un’ulteriore categoria, quella dell’assistenza e promozione.

Per Zanni, il Piano nazionale antiviolenza è «un buon Piano, ma è un piano politico, quindi tutte le azioni previste non hanno un risvolto concreto a livello strategico-operativo. Ci sono degli obiettivi ma non viene detto come si devono raggiungere». Sta proprio qui la debolezza: la mancanza di operatività unita ai ritardi di attuazione.

«L’intento del Governo è quello di continuare sulla scia di questo Piano che scadrà a fine anno. Non penso sia efficace pensare a un nuovo piano, quando ne abbiamo uno che non è stato implementato. Quindi non è del tutto sbagliato cominciare a lavorare su quel Piano dopo due anni di inerzia», sostiene la portavoce nazionale di D.i.Re.

D.i.Re lamenta però anche la mancanza di ascolto da parte delle istituzioni: «Spesso si fa una lettura troppo istituzionale del fenomeno del femminicidio e della violenza di genere. L’istituzione magari vede delle donne durante le audizioni come testimoni. Noi però facciamo una lettura e rielaborazione diversa perché nei centri antiviolenza non incontriamo una donna, ma centinaia all’anno. È importante che l’istituzione riconosca il valore di questo lavoro, di questa esperienza e competenza». Ma non sempre questo accade. Tanto che l’aggiornamento di una normativa ha portato alla necessità di dover avere dei requisiti minimi per essere riconosciuti a livello ufficiale come Cav e Cr.

«Questi criteri hanno caricato i Cav di due obblighi: la reperibilità h24 e l’apertura tutti i giorni compresi i festivi», osserva con rammarico Zanni. A questi obblighi, infatti, non seguono investimenti economici, anzi senza lo “status” di centro antiviolenza si rischia di perdere le risorse già messe a disposizione.

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