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    Fase 2, per le riaperture spunta la “terza via”. Ecco cosa prevede

    Controlli Credits: ANSA

    Riapertura nazionale, ma mobilità regionale: l'ipotesi di tecnici e scienziati per la fase 2

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 21 Apr. 2020 alle 08:15

    Fase due, per le riaperture spunta la “terza via”

    La fase due fa discutere. Negli ultimi giorni sta prendendo sempre più piede l’ipotesi di una riapertura modulata sulle regioni: ovvero far ripartire prima quei territori meno colpiti dall’epidemia del Coronavirus e l’idea è estremamente divisiva. Non solo le Regioni (la Lombardia e il Veneto spingono per far finire il lockdown, mentre De Luca in Campania. vuole mantenere chiuso), ma anche gli scienziati e i tecnici delle task force che stanno consigliando il governo sono spaccati sul tema riapertura. 

    Le regioni con pochi contagi devono riaprire: la terza via

    È così che nasce una “terza via”, una sorta di regionalizzazione a metà. Una riapertura a macchia di leopardo: con scelte decentrate non decretate dallo Stato, ma affidate alle decisioni dei Governatori. Come aveva già detto l’Istituto Superiore di Sanità venerdì scorso nel corso della conferenza settimanale, anche il direttore dell’Osservatorio nazionale della salute nelle regioni italiane Alessandro Solipaca ha spiegato “da tecnico” che “differenziare avrebbe senso” e poi ha suggerito ai decisori politici “di pensare a interventi regione per regione. Alcune indubbiamente usciranno prima”dall’effetto domino dei contagi, mentre “altre dopo, quindi penso che sia di buon senso differenziare le aperture”.

    Il CTS frena

    Di diversa visione il Comitato tecnico scientifico: “Finora l’approccio omogeneo su tutto il Paese ha funzionato, è stato un punto di forza nella gestione del contenimento del contagio”. Ma perché si punta a mantenere tutto a lvello nazionale? La regionalizzazione non sarebbe di facile realizzazione per le troppe complessità da tenere presenti. E il rischio che provvedimenti diversificati da un territorio all’altro, magari assunti sulla base dei dati relativi allo stato del contagio, si traducano in spostamenti e fughe, dunque in possibili nuovi focolai del virus. 

    “Regioni? Non è da escludere”

    Tra i tecnici c’è chi “non esclude”, chi lascia la strada regionale ancora aperta. Luca Richeldi per esempio fa parte del Comitato tecnico scientifico, ma non è allineato sulla scelta nazionale. In conferenza stampa della Protezione Civile ha spiegato: “Prevedo un network di misure sul territorio nazionale, se poi a livello regionale il ministero della Salute e i presidenti raccomandino misure specifiche non posso escluderlo”.

    Stessa cosa val per Giovanni Rezza, epidemiologo e direttore del dipartimento Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità, che ritiene “più adeguato e in linea con quanto fatto finora un provvedimento di allentamento del lockdown su scala nazionale, dopodiché le Regioni potrebbero adattare le decisioni ai contesti territoriali con ordinanze specifiche”. Come è avvenuto in Lazio con la riapertura delle cartolibrerie, per esempio.

    Cos’è quindi la terza via

    La terza via nel mondo politico è quella teorizzata da Anthony Giddens e Tony Blair, per disegnare una nuova alternativa sia alle diseguaglianze del neoliberalismo, sia alle rigidità della vecchia socialdemocrazia per una società che premia l’innovazione e il dinamismo senza escludere gli strati sociali più deboli. Ecco, e per il virus? Come si possono mettere insieme economia e rischio contagi? Con la “terza via” si ipotizza una ripartenza differenziata “soft”. Sul piano epidemiologico bisognerebbe considerare innanzitutto il numero dei nuovi contagi e la densità della popolazione suscettibile – cioè quanti sono quelli che la malattia non l’hanno fatta che, come dice Rezza, “temo sia alta anche nelle regioni più colpite dal virus”. Sul piano organizzativo, invece, non si può prescindere dalla ricettività delle strutture ospedaliere e dalla capacità di intervenire per isolare e contenere i possibili nuovi focolai. E poi c’è il lato economico: regionalizzare la riapertura del Paese potrebbe anche significare tenere ancora chiuse Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna. E al momento è ritenuto fuori discussione. “Al massimo – spiega Rezza – potrebbe avere senso disincentivare movimenti e spostamenti da una regione all’altra. Anche su questo, nel quadro di un provvedimento definito su base nazionale, potrebbero intervenire i Governatori”. 

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