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Home » Cronaca

Quei figli che le madri non vogliono: la storia delle culle per la vita

Immagine di copertina

Le “culle per la vita” sono circa 56 in tutto il Paese. Si rifanno alla tradizione della “ruota degli esposti”. Permettono alle famiglie di separarsi dai neonati che non possono crescere, senza abbandonarli. Ecco perché sono legali. E cosa non torna nella narrazione sull’ultimo episodio alla Clinica Mangiagalli di Milano

Un passaggio scorrevole separa il marciapiede da una cella di pochi metri quadrati, a cui si accede spalancando una porta bianca. Al suo interno è contenuta una culla. È la “Culla per la vita” della parrocchia San Giovanni Battista di Bari, installata nel 2015 per volontà del parroco don Antonio Ruccia dopo un caso di abbandono e di morte di una neonata sulla spiaggia di Monopoli, a pochi chilometri dal capoluogo pugliese. La piccola stanza allestita al fianco dell’entrata sembra essere vicino alla Chiesa quasi per caso. Per trovarla bisogna guardare fuori dalla parrocchia, sulla strada, in un punto di accesso visibile a chiunque ma non troppo esposto: persone di cui non si conosce nome, identità, età, nazionalità, qualifica o volto, ma solo la volontà di lasciare il neonato in un luogo protetto e andare via senza lasciare traccia di sé.

S&D

La culla termica permette al bimbo di mantenere una temperatura corporea ideale, evitando ambienti freddi e sbalzi di temperatura eccessiva. Il lettino è rivestito da un contenitore trasparente. La porta non ha serratura o lucchetti: è sempre aperta. «Nel 2015 nel territorio non esisteva nessuna culla e abbiamo sentito l’urgenza di essere attenti nei confronti di questa realtà. Alcuni bambini venivano lasciati per strada mentre si registrava una denatalità crescente, e così ci è venuta l’idea. Ci siamo resi conto che riguarda situazioni diverse da quelle a cui eravamo abituati a pensare, e cioè immigrati o persone senza fissa dimora. Riguarda anche persone inserite nella nostra società. Una società apparentemente perfetta, ma che evidentemente non lo è, perché genera fragilità», spiega a Tpi Don Antonio Ruccia all’interno della sagrestia. «Viviamo questa possibilità in maniera molto semplice, molto bella, come un incontro. Una logica che evidenzia la necessità di braccia allargate che possano accogliere, senza giudizio nei confronti di nessuno e con la grande capacità di essere discreti, mettersi da parte al momento opportuno», aggiunge mentre indica una foto appesa alla parete del corridoio, che lo ritrae mentre sorride e tiene tra le braccia un neonato. È il neonato lasciato nella culla per la vita a luglio del 2020, in piena pandemia. Aveva una settimana di vita e insieme a lui era stato lasciato un biglietto da cui «traspariva un dispiacere», racconta il parroco.

Ricorda la sorpresa di sentire il numero di telefono collegato al dispositivo squillare e la fretta nel precipitarsi verso la stanza. Erano circa le otto di mattina. «Appena ha suonato sono scattato, ho fatto una corsa e in un attimo ho visto il bambino. Poi è arrivato il 118», racconta. «Nessuno di noi l’ha preso fin quando non è arrivata l’ambulanza, come da protocollo. È stato il medico del reparto di neonatologia a mettermelo in braccio, dandomi l’opportunità di sentire il calore. La cosa più bella è stata la paternità che ho avvertito, mai come in quel momento», spiega. Oggi non sa dove si trovi il piccolo, né vuole saperlo, perché ha vissuto quell’incontro come la possibilità di dare un futuro al neonato e di offrire un dono al mondo, senza discriminazioni verso una situazione di fragilità di cui si conosceva poco o nulla. «Sono sicuro che sta bene, se dovesse tornare un giorno gli dirò tutto», continua. 

Cosa prevede la normativa italiana

Il prete vede il gesto della persona che ha lasciato il neonato all’interno della culla come un lascito. «Quando arrivi alla culla entri in una proprietà privata, fai un passo, quindi non si tratta di un abbandono. Anche a livello legale le culle termiche sono considerate come un lascito. Non hai lasciato il bimbo per strada, lo hai affidato alla comunità», sottolinea. In Italia il Codice penale considera abbandono il gesto di lasciare un minore “in balia di se stesso”, ma la deposizione di un neonato nella culla viene visto come un atto in cui le sorti del bambino vengono prese in considerazione: la piccola nicchia è costruita al fine di accoglierlo e salvarlo da abbandoni in altri luoghi, come le strade, le spiagge o i cassonetti. Inoltre con la culla, spiega l’Associazione Aibi, Amici dei bambini – che porta avanti azioni di contrasto all’abbandono e ha installato una culla per la vita a San Giuliano Milanese nell’ambito di un progetto per “la cura dell’abbandono” –  non avviene né l’occultamento del neonato, né l’alterazione dello stato civile, “perché il piccolo non viene prelevato da nessun privato ma consegnato immediatamente al Tribunale per i minorenni”. Infine nel nostro Paese il diritto al parto in anonimato è riconosciuto, regolato dal Dpr 396 del 2000, che consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Sia nel caso di un lascito in culla che di parto in anonimato, dopo dieci giorni – termine ultimo per il riconoscimento – il neonato è dichiarato adottabile dal Tribunale per i minorenni della Regione, che darà il via alla procedura per l’adozione da parte di una nuova famiglia.

Una tradizione antica

​​Le culle per la vita sono la versione moderna delle “ruote degli esposti”, nate nel dodicesimo secolo in Francia e chiamate così perché le madri esponevano i bimbi sulla ruota. In Italia, la prima fu istituita all’ospedale santo spirito d’Assia a Roma per volontà di papa Innocenzo III, il quale – secondo la tradizione – fu sconvolto da incubi di neonati gettati nel Tevere. La più popolare era la ruota della Santissima annunziata di Napoli, dove per secoli sono stati conservati gli oggetti trovati addosso ai neonati e diventata col tempo la prima istituzione per l’assistenza all’infanzia abbandonata. Nell’Ottocento in tutto il Paese le ruote arrivarono a essere oltre 1200, fino a quando, nel 1923, Mussolini decise di abolirle, vietando che una madre potesse rimanere anonima. A partire dalla fine degli anni ‘90, dopo alcuni casi di abbandono di minori per strada o nei cassonetti, i movimenti pro vita hanno ristabilito la tradizione, cercando di allestire il maggior numero di culle all’interno di ospedali e presidi sanitari affinché un bimbo potesse essere subito assistito dal personale specializzato.

Contrasto all’abbandono

Oggi in Italia se ne contano circa 56, presenti in quasi tutte le Regioni ad eccezione di Calabra, Friuli Venezia Giulia, Molise, Sardegna e Trentino Alto Adige. In Sicilia e Veneto ce ne sono sei, in Lombardia 10, installate per lo più all’interno di ospedali e gestite da movimenti per la vita, associazioni indipendenti o fondazioni che si occupano di sostegno all’infanzia. ​​È il caso della Fondazione Francesca Rava – Nph Italia Ets che, nel 2008, insieme al Network Kpgm in Italia, ha dato vita al progetto “ninna ho” contro l’abbandono neonatale e l’infanticidio, con il patrocinio della Società Italiana di Neonatologia (Sin) e della Società Italiana di Pediatria (Sip), per 

diffondere la vigente normativa italiana che consente alle donne di partorire in anonimato e per offrire un’alternativa alla madri che devono separarsi dal bambino e attraverso l’installazione di culle termiche posizionate in un luogo facilmente raggiungibile di alcuni ospedali. «Un evento drammatico avvenuto nel Natale di quell’anno ci ha fatto pensare al progetto», racconta a Tpi Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione. «Un bambino era stato trovato in un cassonetto, a Varese, da un passante di notte. Dal miagolio pensava fosse un gatto, era un neonato che rischiava di morire assiderato. La neonatologia di Varese lo ha salvato. A quel punto come Fondazione abbiamo chiesto al primario Massimo Agosti, che ci aveva aiutato a realizzare il reparto di neonatologia all’ospedale pediatrico Saint Damien in Haiti, cosa potevamo fare. Ci ha suggerito di creare una culla per la vita al fine di scongiurare abbandoni disperati», continua Rava. «Abbiamo installato la culla in un luogo appartato», spiega a Tpi Massimo Agosti, direttore Dipartimento Donna e Bambino dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Asst-Settelaghi di Varese, dove è stata allestita la prima culla del progetto ninna ho. «È collegata al reparto di terapia intensiva. Nel perimetro dell’ospedale accediamo dall’interno, mentre il pubblico può accedervi dall’esterno, come fosse uno sportello. Quando viene schiacciato il pulsante per far aprire la saracinesca, dopo pochi secondi (che permettono alla persona che ha lasciato il neonato di andare via, ndr) scatta l’allarme, e subito l’equipe della neonatologia si reca nella postazione con una culla per trasporto. Noi arriviamo dalla porta anteriore dell’ospedale attraverso un piccolo cortile. È tutto fatto in modo che nessuno veda, nessuno sappia», continua. «Il neonato viene anche registrato per essere poi inserito nelle liste di adozione – aggiunge Rava – e la mamma ha dieci giorni di tempo per tornare a prendere il bambino. Se non torna bisogna rispettare la sua volontà. Se non lo ha fatto significa che non aveva alternativa, bisogna rispettare il suo dolore». Sono 7 gli ospedali che, dal nord al sud Italia, hanno aderito al progetto “ninna ho”. Tra i nosocomi coinvolti anche la clinica Mangiagalli di Milano, dove una culla per la vita esisteva dal 2007. È li che, nel giorno di Pasqua, è stato lasciato il bimbo chiamato “Enea”, che ha gettato i riflettori sul fenomeno degli abbandoni infantili e delle culle per la vita, ignorate dal mondo dell’informazione quando non avvengono casi di cronaca.

Denatalità e falsi miti

I lasciti in culla sono in effetti pochissimi ogni anno: dall’inizio del 2000 sono stati poco più di 10 in Italia. Al Mangiagalli, prima di Enea, erano stati lasciati altri due neonati. «Il progetto è quello di arrivare a non trovare nessuno – osserva ancora Agosti – ma nel frattempo bisogna far conoscere la legge italiana, molto ben fatta perché prevede la decisione di partorire in anonimato e di lasciare il bambino in un luogo sicuro. Va promossa, non nel senso di promuovere l’abbandono, ma offrire un’alternativa sicura quando una famiglia non ne ha altre. E poi va fatta prevenzione: bisognerebbe essere bravi nell’individuare il disagio delle donne gravide, in difficoltà sociali, economiche, relazionali o tutte insieme. Non sappiamo perché una donna abbandona, è una realtà complessa», conclude. Secondo un’indagine condotta su un campione nazionale di 100 Centri nascita, effettuata dalla Società Italiana di Neonatologia (SIN) in collaborazione con “ninna ho” nel 2015 – la più recente e completa disponibile ad oggi per quanto riguarda dati e motivi dell’abbandono – tra luglio 2013 e giugno 2014 sono stati 56 i neonati non riconosciuti dalle madri su un totale di 80.060 bambini nati, pari allo 0,07 per cento sul totale dei nati vivi. Nel 62,5 dei casi si è trattato di neonati non riconosciuti da madri straniere e nel 37,5 da madri italiane. Nel 48,2 per cento le mamme avevano un’età compresa tra i 18 e i 30 anni. Ma si tratta di un fenomeno in calo. «Più di 20 anni fa si parlava di 3mila casi di abbandono all’anno, mentre siamo passati a 300, 400. Stanno diminuendo i nati, parliamoci chiaro, prima ne avevamo 600mila ogni anno, oggi 400mila. Sta calando la natalità», sottolinea il dottor Luigi Orfeo, presidente del Sin. 

Eppure il caso Enea è stato letto sotto una luce opaca, non solo per la diffusione di cifre relative agli abbandoni superiori ai dati di un Paese in cui le persone fanno meno figli, ma anche perché è passata l’idea che la ragione per cui una madre possa decidere di separarsi dalla prole subito dopo il parto sia di natura esclusivamente economica. Si tratta invece di una realtà variegata, complessa e spesso inesplicabile. Sempre secondo l’indagine condotta nel 2015, nella maggior parte dei casi (il 37,5 per cento) sono le difficoltà di tipo psichico o sociale a spingere una donna a compiere questa scelta; i problemi economici, legati anche alla paura di perdere il lavoro, intervengono nel 19,6 per cento dei casi. Il 12,5 per cento delle donne immigrate temono invece di essere espulse o di dover crescere un figlio da sole in un Paese straniero; il 7,1 lo fa per coercizione, il 5,4 per via dell’età troppo o giovane o per solitudine, l’1,8 per violenza. Il più delle volte non basta un aiuto economico per spingere una madre o una famiglia a ripensarci, come sottolinea anche Monya Ferritti, presidente del Coordinamento CARE – Coordinamento di Associazioni Familiari Adottive e Affidatarie in Rete, che riunisce 41 associazioni familiari associate e si occupa di mettere in rete i genitori che decidono di intraprendere il percorso di adozione. «Dalla narrazione sul caso Enea è emerso un binomio tra abbandono dei bambini alla nascita e povertà abbastanza fuorviante. Lo vediamo sia per quanto riguarda le adozioni internazionali che nazionali. In Italia abbiamo oltre un milione di bambini in stato di povertà assoluta con le loro famiglie, indigenti ma che hanno deciso di crescerli. Non è sufficiente la povertà per giustificare un abbandono, perché la questione è multidimensionale. Molto spesso le donne hanno problemi psichiatrici, di tossicodipendenza, la povertà c’entra ma si somma a qualcos’altro», rimarca a Tpi Ferritti.

«È importante sottolinearlo perché dopo il caso al Mangiagalli c’è stata immediata richiesta di dare soldi alla madre perché ci ripensasse, ma non si è arrivati neanche a pensare che una donna non voglia diventare madre. Si da per scontato che tutte devono o vogliono esserlo, che se si separano dal figlio se ne pentono, e in generale qualsiasi cosa fanno non va bene: tenerlo senza soldi, decidere di abortire. C’è un giudizio molto pesante sul corpo delle donne. Intanto l’Istat ci dice che alcune madri hanno meno figli di quelli che desidererebbero, in questo caso sì, per ragioni di tipo economico, e non riescono a conciliare lavoro e famiglia. Allora lo Stato deve mettere le famiglie nelle condizioni di avere i figli che vogliono. E di non avere quelli che non vogliono». 

 

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