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Home » Politica

Tradimenti, bigliettini, colpi di scena: il grande romanzo del voto sul Quirinale

Immagine di copertina
Una scena tratta dal film di Paolo Sorrentino "Il Divo"

Dal derby Andreotti-Forlani, ai 101 congiurati di Prodi fino allo stallo per il dopo Mattarella. La storia della Repubblica italiana nel romanzo della sfida per il Colle

«Se c’è la candidatura dell’amico Giulio, la mia non esiste», «Se c’è la candidatura dell’amico Arnaldo, la mia non esiste». Questo dialogo immaginario ma non troppo tra Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani che compare nel film Il Divo di Paolo Sorrentino non è diverso da uno dei tanti che i leader politici stanno svolgendo in questi giorni in vista della scelta del prossimo presidente della Repubblica.

S&D

Era il 1992 quando sia Andreotti che Forlani cercarono di essere eletti al Colle, ma ad avere la meglio fu Oscar Luigi Scalfaro: come per il Conclave, anche per il Quirinale vale il detto «chi entra Papa esce Cardinale», e non dovremo per questo stupirci se il prossimo capo dello Stato dovesse non essere uno dei nomi che in questi giorni dominano i titoli dei giornali, ma magari qualcuno rimasto fino a questo momento sottotraccia. Se l’elezione del presidente è qualcosa fatto di accordi, tradimenti, sorprese, che può finire per risolversi diversamente dai pronostici, non sono da mettere in secondo piano numerosi altri aspetti legati alla scelta e al ruolo del capo dello Stato, soprattutto basandoci su ciò che hanno fatto i diversi uomini politici che, fino a oggi, si sono succeduti al Colle.

Percorso a ostacoli

L’elezione del presidente della Repubblica avviene attraverso il voto di un’assemblea composta tra i membri di Camera e Senato in seduta comune e tre delegati per Regione (tranne la Valle d’Aosta che ne esprime solo uno). Perché il capo dello Stato venga eletto è necessaria nei primi tre scrutini una maggioranza pari a due terzi dei componenti dell’assemblea, mentre dal quarto è necessaria una maggioranza assoluta. Tale regolamento è pensato proprio per portare al Quirinale al primo voto solo chi goda di un’ampia maggioranza trasversale, e non è un caso che nelle dodici elezioni presidenziali dal 1948 al 2015, solo nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi la pratica si è chiusa al primo scrutinio.

Non può ovviamente essere messa sullo stesso piano l’elezione di Enrico De Nicola a capo provvisorio dello Stato, anch’essa risolta al primo scrutinio sia nel 1946 che nel 1947: si trattava di un’elezione a un ruolo transitorio a scadenza annuale e non può tecnicamente essere considerata un’elezione presidenziale. Sono invece state quattro le occasioni in cui il presidente è stato eletto al quarto scrutinio, il primo che richiede la maggioranza semplice: con Luigi Einaudi nel 1948, con Giovanni Gronchi nel 1955, con Giorgio Napolitano nel 2006 e con Sergio Mattarella nel 2015. Ma ci sono stati anche molti casi in cui l’elezione è andata per le lunghe: 23 scrutini nel 1971 per eleggere Giovanni Leone, 21 nel 1964 per Giuseppe Saragat, 16 per Sandro Pertini nel 1978 e per Oscar Luigi Scalfaro nel 1992. Una lunghezza che può essere stata dettata da vari fattori, siano essi una lunga riflessione o il fallimento di candidati, ma in cui spesso e volentieri hanno influito quelle figure simbolo di tutte le elezioni a scrutinio segreto, a partire da quelle per il Quirinale: i franchi tiratori.

Franchi tiratori

«Nano maledetto non sarai mai eletto». Così era scritto, recita la leggenda quirinalizia, su una scheda di votazione per le presidenziali del 1971. Il «nano» in questione era Amintore Fanfani, considerato uno dei papabili della Democrazia Cristiana, che in qualità di presidente del Senato si trovò suo malgrado tra le mani questa lapidaria sentenza scritta da chissà quale grande elettore. Del suo partito, forse? Questo non lo sapremo mai, ma sappiamo bene che i “franchi tiratori”, i grandi elettori pronti ad abbattere il candidato ufficiale del proprio schieramento, che sia per una questione di posizionamento interno, per antipatie personali o per chissà quale altra ragione, sono alcuni degli indiscussi protagonisti del voto per il Quirinale e hanno mietuto vittime illustri.

E la storia di quella scheda nulla contro Fanfani (che sorte vuole non sia davvero stato mai letto) dimostra che, in qualche modo, quello del franco tiratore è un ruolo che va svolto con una certa dose di creatività. L’ultima vittima illustre di queste truppe irregolari della politica è stata senza dubbio Romano Prodi, la cui corsa al Colle nel 2013 è stata disarcionata dai famigerati 101. Questo accadeva appena tre scrutini dopo che sempre i franchi tiratori avevano affossato la candidatura di Franco Marini, messa in campo con poca cautela già al primo scrutinio dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani (con gli stessi voti, al quarto sarebbe diventato presidente). Una situazione, quella del 2013, che dopo il naufragio di queste due candidature e la mancanza di una maggioranza parlamentare chiara portarono i partiti a implorare Giorgio Napolitano di prestarsi a un secondo mandato, un episodio eccezionale ma che oggi rappresenta il precedente per chi sostiene la possibilità di un Mattarella bis. Ma se il 2013 è stata l’occasione in cui il ruolo dei franchi tiratori ha portato alle conseguenze più impensabili, non è stata di certo l’unica in cui sono stati determinanti, come ad esempio nel 1992, quando prima di arrivare all’elezione di Scalfaro alla sedicesima votazione, illustri nomi della storia repubblicana caddero traditi nel segreto dell’urna.

Il dramma che portò a Scalfaro

Si era reduci da elezioni che avevano visto i partiti tradizionali ridimensionati e nuove forze politiche come la Lega Nord, crescere esponenzialmente. In questo contesto la Democrazia Cristiana provò a portare avanti la candidatura di Arnaldo Forlani. Tuttavia, nel corso di tutti gli scrutini si aggirava per l’assemblea lo spettro di un’altra candidatura democristiana, mai emersa ufficialmente, quella di Giulio Andreotti: è proprio a questo che fa riferimento il dialogo portato sul grande schermo «Se c’è la candidatura dell’amico Giulio, la mia non esiste» e viceversa. In questo clima la Dc decise che il quinto scrutinio sarebbe stato quello propizio per mettere in campo Arnaldo Forlani, il quale però non ottenne il quorum necessario per l’elezione per poco meno di 40 voti. Meno voti di quanto ci si aspettasse, ma non abbastanza da farli desistere: alla sesta, però, il quorum mancò di nuovo, nonostante Forlani ottenne una decina di voti in più. Solo allora la Dc decise di ritirare la candidatura, che sarebbe stata la prima vittima illustre dei franchi tiratori nel 1992.

La seconda vittima arrivò al quattordicesimo scrutinio quando fu il Partito socialista di Craxi a provare a dare le carte, accordandosi con la Dc per la candidatura di Giuliano Vassalli. Giurista di primo piano, membro della Resistenza detenuto e torturato a via Tasso durante l’occupazione nazista, socialista di lungo corso: un profilo che sembrava più che valido e che avrebbe potuto superare lo stallo di una delle elezioni più difficili. Eppure, a Vassalli mancarono oltre 150 voti al raggiungimento del quorum: dati alla mano, a causa di un numero particolarmente alto di franchi tiratori. I partiti non sembravano più in grado di controllare l’assemblea. Il 23 maggio, giunta la notizia dell’attentato al giudice Giovanni Falcone, non rimase alcun margine per lavorare sottotraccia su altre candidature, e si decise di chiudere le votazioni sulla figura del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, ex magistrato e uomo di istituzioni, eletto con larga maggioranza al sedicesimo scrutinio. Le elezioni presidenziali del 1992 contribuirono al dilaniamento dei partiti tradizionali, che di lì a poco avrebbero cambiato definitivamente forma, lasciando nelle mani di Scalfaro un settennato tutt’altro che semplice.

Sobrietà, più o meno

Quando nel 1946 l’Italia passò dall’essere una monarchia a repubblica, ereditò molti luoghi e costumi del suo recente passato sabaudo. Pensiamo solo, ad esempio, al Palazzo del Quirinale: uno degli edifici più grandi al mondo, sviluppatosi a partire dal Cinquecento come residenza pontificia e passato poi ai Savoia dopo la presa di Roma. Eppure, i capi di Stato, per quanto abituati a circostanze di altissimo profilo, sono pur sempre degli esseri umani, con le loro comuni abitudini, anche risiedendo in simili edifici. Fu così che Luigi Einaudi, primo capo dello Stato repubblicano a risiedere al Quirinale, fu sorpreso nel trovare le camere separate che avevano caratterizzato la monarchia sabauda (nessuno aveva messo mano agli arredi dopo il cambio di forma di governo), e preferì dormire insieme alla moglie già dalla prima notte, trascorrendola in una stanza per gli ospiti in cui vennero accostati i due letti singoli, in assenza di un matrimoniale.

Il presidente della Repubblica, infatti, pur dovendo convivere con un cerimoniale di altissimo profilo e mostrarsi impeccabile in circostanze di rilievo internazionale, è una figura che per prassi mantiene uno stile particolarmente sobrio, stile nel quale Sergio Mattarella è stato ineccepibile. Ma se dovessimo nominare un campione di sobrietà, forse il premio dovrebbe andare al capo dello Stato provvisorio, Enrico De Nicola. Nel 1946, infatti, giunto a Roma a bordo della propria automobile privata dalla sua Torre del Greco, non volle insediarsi al Quirinale, ritenendo la cosa in contrasto con la transitorietà del suo incarico, e rinunciò allo stipendio. Il simbolo di questo rigore divenne il mitologico cappotto rivoltato di De Nicola, che non volle mai sostituire con uno nuovo e che accompagnò il primo presidente in tutte le circostanze. Proprio perché i presidenti sono prima di tutto esseri umani, si portano dietro al Quirinale anche altre abitudini di noi comuni mortali, come la superstizione. In questo, il campione fu probabilmente Giovanni Leone, che secondo diverse testimonianze allontanò potenziali iatture facendo il gesto delle corna in numerose occasioni, anche istituzionali. La più celebre, a Pisa, quando per rispondere alle animate contestazioni degli studenti fece con le mani il noto gesto apotropaico.

Arbitri e picconatori

Stile di vita e cerimoniale a parte, il ruolo del presidente della Repubblica rimane qualcosa che viene esercitato in modo differente dalle diverse personalità che lo hanno ricoperto. Il capo dello Stato ha infatti da un lato poteri immensi (come la possibilità di sciogliere le Camere o di rimandare alle stesse una legge) e altri che gli richiedono un distacco dai partiti, simile a quello di un arbitro imparziale, il tutto svolgendo anche la somma funzione di garante della Costituzione e rappresentante dell’unità nazionale. Nei primi anni della Repubblica, molte delle nuove istituzioni avevano un ruolo ancora non pienamente consolidato, e il capo dello Stato non ha fatto eccezione.

Giovanni Gronchi, al Quirinale dal 1955 al 1962, tentò ad esempio di dare un chiaro indirizzo politico di natura presidenziale in numerosi aspetti della vita politica, a partire da quella estera, e non mancò di cercare di influire personalmente sull’indirizzo politico dei governi, senza tuttavia raggiungere sempre i risultati sperati. Anche questo contribuì a trasformare il ruolo del presidente in un ruolo “non interventista”. Se la prima rottura rispetto alla figura sempre più consolidata di “presidente notaio” fu probabilmente lo stile di Sandro Pertini, che non mancò di esternare in modo diretto le proprie posizioni su molte questioni, risultando spesso determinante grazie anche alla sua notevole popolarità, fu con gli ultimi anni della presidenza di Cossiga che le cose iniziarono a cambiare. Dopo cinque anni da presidente “non interventista”, fu molto abile nel cogliere come il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss avrebbero influito in modo determinante sulla politica italiana, e proprio con l’obiettivo di stimolare i partiti a comprenderlo iniziò la fase delle “picconate”, quelle che gli sono rimaste cucite addosso e che lo hanno caratterizzato nella memoria degli italiani.

In questa fase non risparmiò figure di primo piano di giudizi schietti e arrivò a rivelare alcuni tra i più delicati segreti della Prima Repubblica, come l’esistenza dell’organizzazione Gladio. Un finale di presidenza così movimentato non poté che avere un finale a sorpresa: dopo il più breve messaggio di fine anno della storia repubblicana alla fine del 1991, durato poco più di tre minuti, annunciò simbolicamente le proprie dimissioni con circa due mesi di anticipo con un discorso svolto, altrettanto simbolicamente, il 25 aprile. L’avvento della cosiddetta seconda repubblica portò a un cambiamento notevole del ruolo del presidente, ben spiegabile con la teoria dei “poteri a fisarmonica”, messa a punto da Giuliano Amato, secondo cui in un sistema politico funzionante e solido il ruolo del presidente può essere ridotto al minimo, mentre in un quadro fragile può espandersi come fa una fisarmonica. Se dovessimo identificare un momento chiave per spiegare questa teoria, si tratta probabilmente dell’elezione di Napolitano a un secondo mandato, quando i partiti ammisero di non essere in grado di assolvere il compito di dare al Paese un nuovo presidente, chiedendo all’uscente di guidare quella delicata fase e aprendo così a un ruolo ben più presente e attivo del capo dello Stato.
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