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    Riaperture scaglionate per regioni: sì degli scienziati. Ecco come può ripartire l’Italia

    I carruggi genovesi tra vicoli deserti e negozi chiusi dove solo poche persone sono uscite di casa per fare la spesa. Genova, 19 Marzo 2020. ANSA/LUCA ZENNARO

    Fase 2 differenziata per regioni? Sì, ma non è detto che quelle con meno casi possano riaprire per prime

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 17 Apr. 2020 alle 08:05 Aggiornato il 17 Apr. 2020 alle 08:13

    Riaperture scaglionate per regioni: sì degli scienziati. Ecco come può ripartire l’Italia

    Le riaperture nel nostro paese dovranno essere uguali per tutte le regioni? È una delle domande che si pongono gli scienziati, il comitato tecnico-scientifico, la task force e il governo stesso. La mappa dei contagi da Coronavirus in Italia, infatti, offre tutt’altro che un panorama omogeneo: si va dalla Lombardia, con oltre 63mila casi totali, a regioni come la Basilicata e il Molise, che hanno rispettivamente registrato 336 e 263 casi. In mezzo ci sono tutte le altre regioni. Non a caso ieri il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro ha parlato di “tre Italie alle prese con il Covid-19”.

    Fabrizio Starace, membro della task force di Colao, ha confermato che le riaperture dovranno tenere conto delle diverse situazioni regionali. “La cosa fondamentale con cui tutti si misurano è il quando, credo invece che un dato centrale sia il come”, ha detto Starace all’Ansa. “Nel ‘come’ ci sono tutte le misure che devono essere assunte per garantire la popolazione in generale. Ma il come deve confrontarsi con le situazioni molto differenziate che ci sono sul territorio nazionale, anche rispetto alla tenuta del settore sanitario e sociale. Su questo si gioca la vera partita nella fase 2 e in quelle successive”. Ma ha senso dal punto di vista scientifico parlare di una fase 2 scaglionata per regioni?

    Apparentemente la risposta più logica è sì, e anche gli scienziati propendono per questa ipotesi, come spiega questo articolo su Repubblica. Ma il criterio immaginato non è quello più intuitivo: non è detto infatti che le Regioni con meno casi possano procedere alle riaperture per prime. “L’apertura differenziata può avere un senso, ma non se si basa su chi ha avuto più o meno contagi”, sottolinea Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa e coordinatore scientifico della task force in Puglia per l’emergenza Covid-19. “Il criterio deve eventualmente essere: apre prima chi è meglio attrezzato per controllare il virus. Non conta il numero di casi, conta se si sa riconoscerli e gestirli per spegnere sul nascere nuovi focolai”. Senza tener conto degli spostamenti interregionali: “Supponiamo che la Basilicata riapra per prima. Che si fa? Si mettono controlli ai confini per evitare che i suoi cittadini escano e rientrino portando il contagio. È complicato”, dice l’esperto.

    “Dovrebbe riaprire per primo chi è capace di accorgersi se il contagio sta avanzando sul suo territorio e sa come gestirlo”, sostiene Enrico Bucci, professore di Biologia alla Temple University di Philadelphia, che offre anche possibili criteri sulla base dei quali valutare questa capacità: come il numero dei posti letto attrezzati in terapia intensiva e negli ospedali Covid-19 e la capacità di eseguire un certo numero di test al giorno. “Se è inferiore all’1% della popolazione regionale meglio non riaprire, perché non si riuscirebbe a controllare e isolare nuovi focolai”, dice. Ma questi dati sono in mano alle singole Regioni e non è detto che il governo ne sia in possesso.

     

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