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Home » Politica

I partiti amici di Eni camuffati da ecologisti: a cominciare dal M5S

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In campagna elettorale si proclamano tutti green. Ma in questi anni hanno favorito, e generosamente finanziato, le fonti fossili. Viaggio tra i partiti che hanno tradito l’Ambiente

«L’argomento chiave della nostra campagna elettorale? L’ambiente», risponde secco a chi glielo chiede il segretario del Partito democratico, Enrico Letta. Nell’accordo raggiunto con Carlo Calenda in vista del voto di settembre, i dem hanno concordato anche «un’intensificazione degli investimenti in energie rinnovabili». E pure il leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, fresco di divorzio con il Pd, promette: «La nostra sarà un’agenda sociale ed ecologica». In questi inizi di campagna elettorale gli auto-proclami green fioccano, soprattutto nel campo del centrosinistra. Ma se si va a verificare l’effettivo impegno in senso ecologista delle forze politiche in questi ultimi anni il bluff è presto svelato. Pd, centristi e persino i Cinque Stelle – che da sempre fanno dell’ambiente uno dei loro cavalli di battaglia – hanno favorito soprattutto i grandi monopolisti degli idrocarburi, da Eni in giù.

Soccorso agli idrocarburi

Riavvolgiamo il nastro di un paio di lustri. Corre l’anno 2012 e gli operatori dei combustibili fossili sono in forte difficoltà: le politiche di incentivo adottate negli anni precedenti dal Governo Prodi bis (ministro dell’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio) hanno fatto calare i prezzi delle fonti rinnovabili, rendendole più convenienti sul mercato dell’energia rispetto ad esempio al gas. Durante il giorno gli impianti fotovoltaici producono energia a costo marginale zero e riescono a piazzarla sul mercato a quotazioni molto basse. Di contro, fino al tramonto gli impianti a ciclo combinato a gas spesso non riescono a vendere, cosicché nelle ore notturne sono costretti ad alzare i prezzi per compensare le perdite subite. La portata del fenomeno è tale che gli analisti finanziari suggeriscono il cosiddetto “fossil divest”: disinvestire dagli idrocarburi per puntare su solare, eolico e idrogeno (si badi bene: non per spirito ambientalistico, ma proprio perché le fonti pulite sono diventate anche le più convenienti a livello economico). In soccorso alle compagnie dei fossili arriva però il Governo Monti (maggioranza larga, dal Pd al Pdl), che nel decreto Cresci Italia introduce il Capacity Payment, un meccanismo che prevede la remunerazione degli impianti fossili in base non alla produzione effettiva ma alla capacità installata. Si tratta a tutti gli effetti di sovvenzioni alle fonti fossili: circa 680 milioni di euro in tre anni.

Non c’è Crippa per gatti

Questa strategia ottiene però scarsi risultati. Almeno fino al 2019, quando viene superata con l’introduzione di un nuovo meccanismo, il Capacity Market: i grandi impianti di energia da idrocarburi vengono pagati per la loro disponibilità a produrre energia in caso di necessità. A varare il provvedimento è questa volta il Governo M5S-Lega, sotto l’egida di tre protagonisti delle odierne cronache politiche: l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio e il sottosegretario con delega all’Energia Davide Crippa. Per Eni e gli altri monopolisti dei fossili è previsto uno stanziamento da 20 miliardi di euro spalmato su dieci anni. Eppure Crippa ci vede una misura ecologista: «Il Capacity Market – osserva – oltre a dare nuovo slancio alle energie rinnovabili, fornirà un contributo fondamentale per gestire in sicurezza la transizione ad un sistema energetico decarbonizzato». Al contrario, Elettricità Futura, braccio operativo delle imprese elettriche associate a Confindustria, va all’attacco di quella che ritiene una ingiustificata distorsione del mercato dell’energia a vantaggio di pochi e a svantaggio dei molti operatori delle fonti pulite.

Fatto sta che il Capacity Market viene mantenuto anche dal successivo governo: quello guidato sempre da Conte ma sostenuto dalla maggioranza M5S-Pd-Leu-Italia Viva, dove ministro dello Sviluppo economico è il pentastellato Stefano Patuanelli. E sebbene oggi Conte e Patuanelli da una parte e Di Maio e Crippa dall’altra siano su fronti opposti, nessuno di loro ha mai rinnegato quel provvedimento. Ci si accapiglia su molte cose, ma quel favore agli idrocarburi continua a mettere tutti d’accordo.

Trivellisti e nuclearisti

Del resto, negli altri schieramenti nessuno potrebbe rilevare questa contraddizione, dal momento che nessuno, o quasi, è senza peccato. Il Pd, ad esempio, oltre ad aver appoggiato i meccanismi compensativi per i fossili di cui sopra, ha varato ai tempi del Governo Renzi il decreto Sblocca Italia, introducendo corsie preferenziali per trivellazioni, gasdotti, inceneritori, rigassificatori e penalizzando le rinnovabili con una burocrazia elefantiaca che ha fatto accumulare negli anni all’Italia un ritardo storico rispetto agli obiettivi del Green Deal europeo.

La coalizione di centrodestra, dal canto suo, ha sulla coscienza l’anacronistico tentativo di ritorno all’energia nucleare: un modello superato, inquinante, pericoloso, esageratamente costoso, oltreché più volte bocciato dagli elettori attraverso i referendum. Un modello che però continua a piacere anche a Carlo Calenda, leader di Azione e neo-alleato del Pd, con il quale ha siglato un patto elettorale in cui è messo nero su bianco un ossimoro: ovvero l’impegno a realizzare impianti di rigassificazione «nel quadro di una strategia nazionale di transizione ecologica virtuosa e sostenibile». Ma c’è poco da stupirsi, se consideriamo che il Governo uscente guidato da Mario Draghi – e appoggiato da una maggioranza bipartisan – ha fatto tornare a pieno regime le centrali a carbone e ha sottoscritto accordi internazionali che ci legheranno al gas per decenni ancora. D’altronde, abbiamo assistito al paradosso di un ministro della Transizione ecologica – Roberto Cingolani – che  parla della transizione ecologica come di «un bagno di sangue»…

E dire che intanto la Commissione europea – con il suo ultimo programma RepowerEu, elaborato a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina – ha stabilito una serie di target per accelerare la transizione verde, aumentando nel contempo la resilienza del nostro sistema energetico per rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili russi ben prima del 2030. Questa strategia mira, ad esempio, a connettere alla rete oltre 320 gigawatt di nuovo solare fotovoltaico entro il 2025 e quasi 600 gigawatt entro il 2030 (più del doppio rispetto ai livelli odierni). E a innalzare la capacità di produzione di energia rinnovabile prevista attualmente nel pacchetto Fit for 55, portandola da 1.067 a 1.236 gigawatt entro il 2030. Ciò consentirà di evitare il consumo di 9 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno entro il 2027. Purtroppo, però, realizzare questi obiettivi in Italia sarà molto difficile, perché ottenere le autorizzazioni per le rinnovabili è un’impresa che dura anni, mentre le fonti fossili continuano  come se niente fosse a essere finanziate e favorite in molti modi. Basti pensare che – come ci ricorda Legambiente – ogni anno in Italia si regalano circa 35,7 miliardi di euro ai petrolieri sotto forma di sussidi diretti o indiretti. Forse la nostra classe politica non è all’altezza delle strategie europee, ed è ancora troppo appiattita su soluzioni anti-ecologiche molto care ai monopoli energetici. Di questo passo, quel futuro che dovrebbe essere verde rischia di essere sempre più nero.

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