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Home » Opinioni

Il social più influente del mondo in balìa dei capricci di Elon Musk

Immagine di copertina
Elon Musk Credits: ANSA
C’è qualcuno che pensa che per creare un mondo migliore si debba dare più potere all’uomo più ricco? Eppure è proprio questo che Elon Musk ci chiede di accettare, con la sua offerta pubblica di acquisto di Twitter. Non gli basta avere un patrimonio netto stimato pari a 273 miliardi di dollari, ora vuole anche possedere uno dei principali canali di comunicazione del mondo. Per capire l’entità della ricchezza di Elon Musk vale la pena soffermarsi un momento su cosa significhi effettivamente questo numero astratto, 273 miliardi di dollari. Ad esempio, i Pil dei 50 Paesi più poveri del mondo messi insieme – tra cui Niger, Malawi, Moldova, Montenegro, Sierra Leone – arrivano a 150 miliardi di dollari, appena la metà della fortuna di Musk. Il suo patrimonio è maggiore del Pil cumulato di due Paesi di medie dimensioni come Ucraina e Marocco. È più del Pil dell’Egitto.
O del Portogallo, un Paese europeo abbastanza prospero. È paragonabile al Pil del Cile o della Finlandia. L’offerta pubblica di acquisto fatta da Musk per Twitter costerebbe “solo” 43 miliardi di dollari, meno di un quarto del suo patrimonio netto. In questa operazione non c’è in ballo la proprietà di un giornale o di una stazione televisiva con un’audience locale o addirittura nazionale: qui si parla di uno dei principali sistemi di comunicazione mondiali, con circa 330 milioni di utenti attivi mensili. Meno dei 3 miliardi di utenti di Facebook, d’accordo, ma Twitter ha un livello di influenza che va oltre il numero dei suoi utenti, essendo molto popolare tra giornalisti, politici di professione, accademici e attivisti politici. Il ché significa che i dibattiti che si tengono su questo social network finiscono per plasmare il modo in cui vengono gestite questioni di rilevante importanza. Non a caso, Twitter era la piattaforma preferita di Donald Trump, il suo principale mezzo di comunicazione con un pubblico globale. Twitter è stato avviato nel 2006, appena due anni dopo Facebook. In questi diciotto anni – o meglio, dal 2009 quando Facebook ha creato la funzione “mi piace” e Twitter il pulsante “retweet” per condividere i contenuti – abbiamo imparato che a essere maggiormente condivisi sono i post e i tweet che suscitano emozioni estreme, generalmente indignazione e rabbia. Gli studi su Twitter hanno dimostrato che il 90 per cento dei tweet è generato solo dal 10 per cento dei suoi utenti, quasi sempre utenti molto partigiani della destra e della sinistra politica. Di conseguenza, i social media sono diventati nel migliore dei casi uno spazio altamente controverso di polarizzazione politica, e nel peggiore dei casi un pozzo nero di disinformazione, diffamazione e odio.
Come ha detto uno degli ingegneri che hanno contribuito a creare il pulsante “retweet”, «potremmo aver appena consegnato un mitra carico a un bambino di 4 anni». Ebbene, quel mitra carico è diventato l’arma principale di Trump, che l’ha usata in modo abbastanza efficace per attaccare i suoi avversari e sferzare i suoi seguaci. Sulla scia della violenta occupazione della capitale degli Stati Uniti, Twitter ha finalmente espulso Trump. Dopo anni di abusi, il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, ha accettato l’idea che ci siano dei limiti da non oltrepassare, e che la sua piattaforma non debba essere utilizzata per diffondere false informazioni su Covid e vaccini o incitamenti alla violenza politica. Dorsey ha quindi escluso Trump da Twitter. Elon Musk, invece, ha una forte vena libertaria e ha criticato gli sforzi per vietare le opinioni estreme. Ha parlato di Twitter come di «un’arena inclusiva per la libertà di parola». In un momento in cui si chiede una maggiore regolamentazione dei social, Musk propone un mondo in balìa degli umori capricciosi di uno stra-miliardario eccentrico e del suo concetto di libertà di parola. Se mai esiste un argomento a favore di una seria tassa sul patrimonio, è proprio questo.
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