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    Salario minimo: perché la direttiva europea cambierà l’Europa e l’Italia

    Di Daniela Rondinelli
    Pubblicato il 9 Giu. 2022 alle 15:25 Aggiornato il 16 Giu. 2022 alle 14:29

    In queste ore ho letto una serie di valutazioni e analisi sulla direttiva sul salario minimo provenire da persone che – in base a quanto affermato –dimostrano non solo di non conoscere il dossier, ma addirittura di ignorare i principi basilari della legislazione europea.

    Per questo, in qualità di europarlamentare italiana che più di ogni altro ha seguito l’iter legislativo, sento il dovere di chiarire quali siano gli elementi fondamentali della direttiva e l’impatto che questa è avrà sull’UE e sull’Italia.

    Innanzi tutto, è fondamentale ribadire che la direttiva sul salario minimo è – in quanto tale – vincolante e obbliga l’Italia, come ogni altro Stato Membro, a recepirla entro due anni.

    La direttiva stabilisce, da un lato, una serie di meccanismi di calcolo per determinare quando i salari sono adeguati ed equi, dall’altro stabilisce un livello minimo di copertura della contrattazione collettiva.

    La direttiva, quindi, non impone all’Italia l’adozione di un salario minimo, ma pone le condizioni affinché ciò avvenga e addirittura rappresenti la soluzione più logica a molti nostri problemi. Infatti mette a nudo – grazie a dei criteri vincolanti – le disfunzioni del nostro sistema di contrattazione, obbligando il Governo italiano ad affrontare con urgenza il tema della povertà lavorativa che colpisce 3,5 milioni di lavoratori.

    Qualora l’Italia non recepisse entro due anni la direttiva, andrebbe inevitabilmente incontro a una procedura di infrazione da parte della Corte di Giustizia Europea.

    Altro elemento fondamentale è che la direttiva si applica a tutti i lavoratori. Senza eccezioni tra pubblico e privato. Questa è un’altra grande vittoria, poiché mette tutti i lavoratori sullo stesso piano e da loro la possibilità di avere accesso a salari davvero dignitosi.

    Il salario minimo, quindi, varierà da Paese a Paese, ma è chiaro che l’intento della direttiva è quello di stroncare, oltre al lavoro povero che colpisce 1 lavoratore europeo su 10, anche la concorrenza sleale nel mercato interno basata sul dumping salariale e che alimenta il deprecabile fenomeno delle delocalizzazioni. Anche per questo in tanti Paesi, come la Francia, le organizzazioni datoriali hanno sostenuto con forza questa direttiva. Peccato che in Italia non ci sia stata la stessa lungimiranza.

    La direttiva, pertanto, prevede un meccanismo che consentirà di livellare verso l’alto i salari minimi nei Paesi in cui già questi esistono, riducendo progressivamente le differenze tra i 2.256 euro del Lussemburgo e i 332 euro della Bulgaria.

    Ma come già chiarito in precedenza, i principi di adeguatezza si applicano a tutti, Italia inclusa, ed è evidente che nel momento in cui il nostro Paese è l’unico dell’area OCSE in cui il salario annuale medio si è addirittura ridotto negli ultimi trenta anni, con un -2,9% a fronte di un +31% della Francia e un +33% della Germania, la direttiva sarà fondamentale per ridare slancio ai salari.

    In questo contesto, ritengo fondamentale evidenziare un altro elemento cruciale, frutto di un mio emendamento approvato nella risoluzione del Parlamento e poi mantenuto nel testo dell’accordo, nel quale si afferma che un salario minimo è adeguato non solo quando è al di sopra del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano, ma anche quando consente l’accesso ad un paniere di beni e servizi fondamentali che devono essere parametrati in funzione dell’inflazione.

    Questo significa, indipendentemente da quanto sostenuto dal Presidente di Confidustria ed altri, che se l’inflazione cresce dell’8% i salari devono essere alzati di conseguenza.

    Infine un’ultima riflessione riguarda l’efficacia del nostro sistema di contrattazione collettiva. In molti si sono affrettati a dire che questa direttiva non ci riguarda perché l’Italia supera la soglia dell’80% dei lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva.

    Ma anche qui va smascherata l’ennesima fake news in quanto il dato italiano è in realtà un numero fittizio. Basti pensare che negli ultimi 10 anni i contratti collettivi nazionali depositi al CNEL si sono quasi raddoppiati passando da 551 a 992. Di questi, sempre in base a dati ufficiali del CNEL, 622 sono scaduti e circa 300 sono considerati contratti pirata in quanto fissano condizioni salariali e lavorative indecenti e molto al di sotto di quelle stabilite dai contratti collettivi nazionali di riferimento. Inoltre, stentiamo a riconoscere nuove tipologie di lavoro generate dalle transizioni verde e digitale, come dimostrato dal caso dei rider.

    Ne consegue che dietro l’attuale sistema di contrattazione collettiva si nascondono enormi sacche di abusi perpetrati nel tempo da sindacati gialli in accordo con organizzazioni datoriali senza scrupoli a dispetto delle più elementari norme del diritto del lavoro.

    A questo punto si pone il duplice problema di come rinnovare a tempo di record centinaia di contratti collettivi e come spazzare via la giungla di contratti pirata, proprio come la direttiva chiede. Noi del M5S una proposta ce l’abbiamo da tempo. Ed è quella del salario minimo, proprio come avviene in quasi tutti i paesi europei. E non è casuale che i 9 euro all’ora da noi proposti siano esattamente in linea con i nuovi parametri europei.

    È evidente quindi che questa direttiva non solo sarà vincolante ma rappresenterà la pietra angolare di un nuovo progetto di Europa Sociale che è destinato a cambiare l’Italia e l’Europa, superando finalmente anni di austerità e vincoli di bilancio, e mettendo al centro le persone e la loro qualità di vita.

    La sfida dell’Italia, a questo punto, è quello di non attendere due anni ma recepire subito la direttiva, aggiornando il proprio sistema di relazioni industriali e contrattazione collettiva, adeguandolo alle sfide di un Paese davvero moderno e proiettato al futuro, e ripartendo dalla dignità del lavoro e dei lavoratori, il patrimonio più grande per un paese come il nostro che fa dell’eccellenza e del “Made in” il fulcro della sua essenza produttiva in Europa e nel mondo.

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