Rimettiamo al centro il capitale umano (e chi lo sostiene)
In un’Italia segnata da squilibri economici e demografici, valorizzare ciò che regge l’impianto sociale ed economico non è un esercizio di retorica, ma un dovere strategico
Le vere “terre rare” del Made in Italy non sono nel sottosuolo: sono nei risparmi degli italiani. È questo patrimonio privato – unico in Europa per dimensioni e resilienza – che alimenta la forza del nostro sistema finanziario e, attraverso esso, la tenuta complessiva del Paese. Banche e assicurazioni non sono dunque un semplice ingranaggio dell’economia: ne rappresentano l’asse portante, il pilastro che sostiene conti pubblici, credito, investimenti e stabilità sociale.
Da anni gli istituti italiani svolgono un ruolo decisivo nel reggere il debito pubblico e nel mantenere una domanda interna di titoli di Stato che, per volumi, ha pochi paragoni al mondo. Senza questo contributo, lo Stato italiano si troverebbe a operare in condizioni ben più difficili. È una realtà spesso trascurata nel dibattito pubblico, eppure fondamentale per comprendere la struttura del nostro sistema economico.
A questa funzione si somma un impegno crescente sul fronte sociale. Gli interventi a favore dei più fragili – dai programmi alimentari alle misure per il disagio abitativo – hanno mobilitato negli ultimi anni risorse significative: decine di milioni destinati al supporto diretto delle famiglie e miliardi in iniziative di social lending. «Nel periodo 2023-2027, gli utili trasferiti dagli azionisti di Intesa Sanpaolo alla comunità saranno pari a 1,5 miliardi. E sarebbe un peccato doverli ridurre», ha recentemente ricordato il Ceo, Carlo Messina. Senza questi strumenti, molte persone oggi prive di tutele rimarrebbero ai margini.
Eppure, nonostante questo contributo, si è diffusa una narrazione ostile nei confronti delle banche, come se fossero un ostacolo alla crescita anziché un elemento di stabilizzazione.
È legittimo discutere di tassazione sugli extraprofitti, ma appare anomalo individuare nel solo settore finanziario il perimetro di tale richiesta, quando numerose aziende italiane superano regolarmente utili da oltre un miliardo. Il rischio è quello di indebolire proprio l’infrastruttura che garantisce allo Stato margini di manovra e al Paese un baluardo contro l’aumento delle disuguaglianze.
In altre economie avanzate i motori della crescita sono diversificati: negli Stati Uniti, per esempio, il ruolo delle grandi imprese tecnologiche compensa la fragilità di segmenti più tradizionali. In Italia, dove il tessuto industriale è meno omogeneo e più vulnerabile ai cicli globali, l’equilibrio si regge soprattutto sulla solidità degli intermediari finanziari. Colpirne l’affidabilità significa esporsi a rischi maggiori.
Proprio per questo, al centro della riflessione deve tornare il capitale umano: la risorsa più preziosa e, paradossalmente, la più trascurata. Senza investimenti in formazione, retribuzioni adeguate, politiche attive del lavoro e sostegno ai giovani, la capacità produttiva del Paese rischia un rallentamento strutturale. La mobilità sociale non nasce da slogan, ma da competenze, stabilità e opportunità reali.
La crescita sostenibile di un Paese dipende dalla collaborazione di istituzioni, imprese, università e sistema finanziario: un ecosistema unico che deve generare valore e fiducia.
In un’Italia segnata da squilibri economici e demografici, valorizzare ciò che regge l’impianto sociale ed economico non è un esercizio di retorica, ma un dovere strategico. Se il futuro passa dal capitale umano, allora occorre riconoscere e rafforzare gli attori che oggi ne sostengono le fondamenta.