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    Ma quale autonomia, le Regioni sono state un grande flop e andrebbero abolite

    Attilio Fontana e Vincenzo De Luca
    Di Fabio Salamida
    Pubblicato il 25 Mag. 2020 alle 08:18 Aggiornato il 25 Mag. 2020 alle 12:15

    Prima che gli eventi ci costringessero per mesi a parlare quasi solo ed esclusivamente di Coronavirus, tra gli argomenti sul tavolo del Governo Conte II c’era il come dar seguito alla richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune Regioni (in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), ovvero la cosiddetta “autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario”. In pratica, un ulteriore passaggio di competenze e risorse a completamento della riforma del Titolo V della Costituzione, che già aveva molto rafforzato i poteri degli enti locali. A spingere maggiormente per liberarsi dalle presunte catene di un presunto “Stato padrone”, la Lombardia e il Veneto, regioni in cui nel 2017 si svolse anche un referendum consultivo.

    Le materie su cui i presidenti vorrebbero maggiore autonomia sono molte, dai rapporti con l’Ue al commercio con l’estero, dalla sicurezza sul lavoro all’istruzione, dalla promozione dei beni culturali al fisco. Chi sostiene la riforma chiede che i famigerati soldi delle tasse degli italiani vengano utilizzati da chi amministra i territori, chi si oppone pensa invece che quelle risorse vadano comunque gestite dallo Stato centrale, che un ospedale in Calabria, ad esempio, dovrebbe essere trattato esattamente come un ospedale della Lombardia, per evitare che si accentui il già evidente gap che c’è tra il nord e il sud del Paese.

    E di autonomia si è discusso molto, nelle lunghe settimane del lockdown, nelle “stanze dei bottoni” di Roma e in quelle locali. Molti presidenti non hanno fatto segreto del loro disappunto su presunte “invasioni di campo” nelle scelte emergenziali del Governo, scelte in realtà coperte dall’articolo 117 della Costituzione che attribuisce allo Stato i “principi fondamentali” in materia di tutela della salute su tutto il territorio nazionale, senza distinzioni. In realtà, il Coronavirus ha messo in luce – qualora ve ne fosse bisogno – tutti i limiti di quel federalismo populista e campanilista inizialmente bandiera della Lega Nord (quando Matteo Salvini trattava i meridionali assai peggio di come oggi tratta i migranti) che purtroppo negli anni è stato assecondato un po’ da tutte le forze politiche. Abbiamo assistito a videomessaggi quasi quotidiani con “presidenti sceriffi”: un intrattenimento talvolta divertente, talvolta desolante, ma non certo degno di un Paese serio.

    Semplificando, si potrebbe dire che si è preferito assecondare l’idea che in Italia vi fossero delle radicate identità territoriali (cosa in parte vera, ma risibile rispetto a quelle di Paesi come Germania e Inghilterra) e che queste dovessero avere un potere paragonabile a quello dello Stato centrale. Sul fatto che vi siano delle palesi differenze di approccio alla cosa pubblica tra un siciliano e un piemontese non ci piove, che queste differenze dovessero distribuire per l’Italia venti potenziali Giulio Gallera è stato probabilmente un grave errore storico a cui forse bisognerebbe rimediare, placando i “sogni di gloria” di quei presidenti che vorrebbero diventare dei viceré e magari tornando indietro e riconsegnando allo Stato centrale gestione di materie che non possono diventare oggetto di diseguaglianze tra cittadini della stessa nazione. Sì, bisognerebbe depotenziare le Regioni, se non abolirle del tutto e rimettere ordine in quel pastrocchio di competenze che si è venuto a creare negli ultimi anni

    Un pastrocchio che politicamente è stata una sorta di furba scorciatoia, perché da un lato ci si è ben guardati dal mettere mano ai vetusti ingranaggi della macchina dello Stato, evitando di far entrare realmente le istanze territoriali nei palazzi di Roma, dall’altro si è scaricato sui territori fette di potere, di risorse e di interessi. Non è un caso che negli ultimi anni i più grandi scandali di corruzione abbiano avuto come protagonista il personale politico delle Regioni, dove tra l’altro i consiglieri vengono eletti con quel vettore di corruzione e voto di scambio che sono le preferenze. E non è un caso che molti di quegli scandali abbiano colpito la sanità, materia su cui le Regioni hanno la maggiore disponibilità di autonomia e risorse. Insomma, più che venti Regioni l’Italia ha venti consigli regionali, venti presidenti, venti squadre di assessori e di conseguenza venti centri di potere, con annessi e connessi. Un sistema perfetto per chi deve distribuire poltrone e consulenze, per giocare col “Cencelli” delle correnti dei partiti: un po’ meno per i cittadini italiani, da Predoi a Lampedusa.

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