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Perché serve un Recovery Plan dell’Energia (di G. Garavini)

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L’Ue è la regione al mondo più dipendente dalle importazioni di gas e petrolio. Il boom dei prezzi ne mette a rischio la tenuta. Abbiamo bisogno di un piano comune sul modello anti-Covid

Rispetto al 2020 i costi dell’energia in Europa sono aumentati, a seconda dei Paesi, tra il 6 e l’8% del Pil: si tratta della peggior crisi energetica dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per dare un’idea, il Recovery Plan varato due anni fa come strumento di rilancio post-pandemia vale il 3,6% del Pil dell’Unione europea, per giunta spalmato su vari anni. Per compensare l’aumento delle spese energetiche e scongiurare una severa recessione sarebbe vitale il varo di un piano energetico europeo ancora più consistente di quello varato per far fronte al Covid.

Il rincaro dei prezzi di gas e petrolio colpisce in modo particolarmente duro l’Ue, la regione più dipendente dalle importazioni energetiche al mondo. A ciò si aggiungono problemi strutturali come la storica diminuzione della produzione elettrica dal nucleare francese che si è registrata quest’anno. L’inflazione energetica ha fatto scendere i salari reali nell’Eurozona del 5% e portato al maggior abbassamento del tenore di vita dei cittadini britannici dall’inizio delle serie statistiche negli anni Sessanta. Non a caso, recentemente il Governo britannico ha proposto interventi per 150 miliardi di sterline e quello tedesco ha annunciato un maxi-piano da 200 miliardi di euro per contenere gli aumenti delle bollette. Sul fronte delle importazioni, invece, c’è poco da fare. Il tetto al prezzo del petrolio russo proposto dal G7 sta avendo come risultato quello di rinsaldare l’asse Opec Plus tra Russia e Arabia Saudita, che si sono accordate per un taglio della produzione di greggio per sostenere il prezzo. Quanto al price cap sulle importazioni di gas, esso implicherebbe imporre un prezzo di vendita alla Norvegia (oggi maggior fornitore Ue) e ai produttori di gas liquefatto americani. Sarebbe semmai auspicabile negoziare con i produttori un prezzo giusto per tutti e stabile; ma l’operazione è complicata perché significherebbe negoziare indirettamente anche con Mosca, nonché imporre ad aziende private i prezzi delle importazioni. Sul piano interno la Commissione europea ha auspicato misure come l’aumento delle tasse sugli extraprofitti delle società energetiche, il blocco dei prezzi per gli operatori “infra marginali” (rinnovabili), il tetto temporaneo al prezzo delle bollette, e ha aperto a modifiche del “disegno” del mercato dell’energia.

Per attuare il blocco delle bollette si renderanno (e si sono già resi) necessari ingenti esborsi da parte dei governi, per coprire la differenza con i prezzi di mercato. Alcuni Stati hanno più spazio fiscale di altri, e per questa ragione Draghi ha giustamente affermato che «davanti a minacce comuni dei nostri tempi, non possiamo dividerci a seconda dello spazio nei nostri bilanci nazionali». Italia e Francia chiedono indebitamento comune, trovando per ora poche sponde da parte di una Germania preoccupata dal possibile aumento dell’inflazione da offerta. Eppure, il rischio di lasciare ogni governo solo di fronte alla crisi energetica, eventualmente ricorrendo a scostamenti di bilancio, è la frammentazione tra le economie europee e forti pressioni sulla tenuta della moneta unica.

Posto che si trovi un accordo su un Recovery Plan energetico che eviti di dividere gli Stati europei tra chi è in grado di difendere imprese e cittadini e chi non lo è, i problemi non finirebbero. In particolare occorre introdurre forme pianificate di riduzione dei consumi di energia da fonte fossile, perché i prezzi saranno strutturalmente alti e perché occorre decarbonizzare rapidamente il sistema energetico. Serve riformare il libero mercato dell’energia e tornare a prezzi amministrati e a infrastrutture energetiche pubbliche per scongiurare il dilagare della povertà energetica e per sanare le sperequazioni tra le diverse regioni del continente. Infine c’è bisogno di velocizzare la produzione da rinnovabili (l’Ue è molto indietro rispetto alla Cina in termini di investimenti in nuova capacità produttiva da rinnovabili). Ciò può essere fatto solo attraverso investimenti pubblici e con il varo di società statali che abbiano come unico obiettivo quello di investire in produzione e tecnologie verdi.

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