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Disuguaglianze, rabbia, egoismo: ecco perché la pandemia non ci ha reso affatto migliori

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A inizio 2020, nel bel mezzo del primo rigorosissimo lockdown causato dalla pandemia di Covid-19, quando, inconsapevoli degli sviluppi reali, cantavamo sui balconi i successi di Toto Cutugno mentre documentavamo attoniti le ritrovate trasparenze delle acque nei canali veneziani o nei porti cittadini, ci eravamo illusi che ne saremo usciti migliori.

Sembravamo davvero tutti consapevoli dell’innaturale accelerazione che aveva imboccato la nostra società iper-consumistica, votata unicamente al profitto e, sull’onda dell’inaspettata riscoperta delle gioie bucoliche offerte da una natura non contaminata da attività umane, ci proclamavamo determinati a cambiarla. Eravamo convinti che questa comune sciagura ci avrebbe uniti nella lotta alla globalizzazione imperante e allo sfruttamento dell’ambiente -alla base del disastro in atto- e sembravamo tutti d’accordo nel voler anteporre la collettiva salvaguardia della salute e della natura, all’egoistica tutela liberista dell’economia che tutto fagocita.

A distanza di più di un anno, possiamo affermare che, invece, forse ne siamo usciti pure peggiori. Sempre più polarizzati nelle nostre convinzioni, imboccati in un senso o in un altro dai messaggi customizzati dei social che hanno ingigantito le differenze di opinioni, abbiamo iniziato a dividerci, già a maggio 2020, dopo soli due mesi scarsi di lockdown (roba che Tomas Pueyo ancora ride), appena il pericolo sembrava scampato, tra sostenitori della necessità delle chiusure e detrattori che consideravano, invece, le misure prese dal governo Conte deleterie per l’economia e i guadagni.

Se a marzo ci stringevamo attoniti in un gigantesco abbraccio virtuale per vincere l’horror vacui provocato dalla situazione surreale in cui ci trovavamo, ad agosto già avevamo dimenticato tutto -nella tipica reazione capitalistica improntata al consumo velocissimo anche delle emozioni e degli stati d’animo- e iniziavamo già a schierarci in base alle posizioni dei virologi preferiti, propendendo per aperture incondizionate a tutela del dio denaro, spinti dal mantra zangrilliano secondo il quale il virus si era estinto, o sostenendo le tesi crisantiane improntate alla prudenza estrema per tentare di arginare l’arrivo di una seconda ondata. Che infatti è arrivata e ha colpito sia l’una che l’altra compagine, obbligando a richiudere quasi tutto e inasprendo ulteriormente la polarizzazione.

E in un baleno, abbiamo dimenticato i buoni propositi che ci avevano uniti nella comune lotta per contrastare le diseguaglianze partorite dal neoliberismo e ci siamo fatti fregare, ancora una volta, dalle sue ammalianti lusinghe. Tra un semplice ordine su Amazon e una serie su Netflix, abbiamo perso in un clic il fervore collettivo a tutela della trasparenza dei canali veneziani, mentre cementavamo le fondamenta del modello liberista artefice delle passate storture, responsabile della deriva individualista che ha infranto le labili intenzioni di una qualsivoglia unità di intenti.

Abbiamo iniziato a far circolare, insieme alle nuove varianti del virus, una nuova versione della “vita di prima”, ancora più egoistica ed egocentrica, fomentata dalla mancanza di adeguati ristori per continuare a far girare l’economia, nella quale la necessità di rispondere alle leggi del mercato è diventata più importante della tutela della salute. Così, l’ascia delle buone intenzioni è stata presto dissotterrata dall’inaspettata durata della pandemia, che ha acuito l’ennesima guerra tra poveri, determinata dalla spaccatura insanabile tra quelli che, alla canna del gas dopo mesi di aiuti insufficienti, osteggiavano le chiusure, costretti a fare profitti per non soccombere alle rigide leggi del mercato e quelli che, invece, caldeggiavano, tali necessarie chiusure riparati magari dall’ombrello economico dello stipendio fisso o da cospicui risparmi.

E in breve, le allegre chat su Houseparty e le canzoni intonate insieme dai balconi condominiali del primo lockdown hanno lasciato il posto, mentre i conti correnti si assottigliavano, a feroci battibecchi su Facebook in merito all’utilità delle mascherine, o a faide familiari sull’efficacia dei vaccini. In un tutti contro tutti contraddistinto solo dalla comune perdita del reale obiettivo da annientare per tornare alla vita di prima: la pandemia. Quella pandemia che, mentre squadernava l’ordine sociale al quale tutti, più o meno, obbedivamo, ha scoperto nervi e debolezze del sistema insostenibile alla base della “vita di prima”, portando tutti i nodi al pettine.

Dall’inadeguatezza della medicina territoriale, smantellata come in Lombardia, o assente come in Calabria, alle crescenti diseguaglianze sociali, fino alla recente dolorosa constatazione della supremazia del profitto, perduto nei mesi delle chiusure, a discapito persino della vita umana, come testimoniato dalle recenti tragedie della funivia di Stresa e della fabbrica di Prato causate, soprattutto, dall’assenza di adeguati sistemi di sicurezza per evitare indesiderati intoppi alla macchina dei profitti. Speravamo di uscirne migliori, mentre cantavamo insieme sui balconi, ma ne siamo usciti peggiori. E di molto. L’involuzione in negativo della condizione sociale generale, già pessima prima della pandemia, ha subito un’ulteriore accelerazione.

I super ricchi ne hanno ulteriormente beneficiato, mentre la classe media ha subito, e subirà ancora di più nei prossimi mesi quando si sbloccheranno i licenziamenti, l’ennesima erosione di diritti e privilegi acquisiti nello scorso secolo, tornando a livelli ottocenteschi di disuguaglianza e divario sociale. La smania di pochi di capitalizzare e accumulare beni e ricchezze è cresciuta, a causa dello stop ad alcuni consumi imposto dai lockdown, in maniera direttamente proporzionale alla fame, vera e propria, di milioni di persone.

E se, in alcune economie floride, come quella cinese e quella statunitense, dopo le chiusure si è assistito ad un effetto di rimbalzo positivo nei consumi, garantito dalla voglia di acquisto mancato subito nell’anno e mezzo pandemico, nelle realtà sofferenti come quella italiana l’effetto rimbalzo è decisamente più modesto e andrebbe considerato con maggiore attenzione, prima di gridare al miracolo economico post bellico che sorreggerà l’urto dello sblocco dei licenziamenti caldeggiato da Confindustria, ancora convinta che l’Italia, unico paese secondo Bonomi a beneficiare dell’incredibile privilegio nell’era neomedievale dei diritti mancati dei lavoratori, debba adeguarsi alle altre nazioni che non tutelano classe media e operaia.

La legge del più forte e del più fortunato, già in auge prima del Covid, ha messo il turbo ed è pronta ad asfaltare milioni di fasce deboli e sfortunate per alimentare ancora di più le disuguaglianze che ci hanno portato qui. E i cori dai balconi somigliano sempre più a un sogno fugace svanito presto, che ci ha lasciato ancora più arrabbiati e troppo divisi per ingranare la retromarcia che volevamo mettere per evitare l’inevitabile sfacelo verso il quale ci dirigiamo, a una velocità ancora più folle della tanto agognata “vita di prima”.

Leggi anche: Top e flop delle regioni nella gestione della pandemia

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