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La grande sfida sull’obesità è cambiare la narrazione tossica che la circonda (di G. Gambino)

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Per anni abbiamo finto che l’obesità fosse una questione di volontà. Che bastasse “mangiare meno e muoversi di più”. Un ritornello comodo, rassicurante, che permette di tracciare una linea netta fra chi “ce la fa” e chi “non ci riesce”. Ma la realtà, come spesso accade, è più scomoda: l’obesità non è una colpa

Una persona su otto in tutto il mondo è affetta da obesità. Un dato preoccupantemente sempre più in crescita. In questo contesto, l’Italia è il primo Paese in assoluto a dotarsi di una legge che la riconosce come patologia cronica. Un passo storico, ma anche l’occasione per guardare in faccia una delle grandi sfide del nostro tempo. 

Per anni abbiamo finto che l’obesità fosse una questione di volontà. Che bastasse “mangiare meno e muoversi di più”. Un ritornello comodo, rassicurante, che permette di tracciare una linea netta fra chi “ce la fa” e chi “non ci riesce”. Ma la realtà, come spesso accade, è più scomoda: l’obesità non è una colpa. 

È una malattia cronica, complessa, che nasce da una combinazione di fattori genetici, ambientali, ormonali, psicologici e sociali. Il corpo, d’altronde, non è una macchina che risponde a comandi meccanici o lineari. Chi ha provato a dimagrire sa che il peso non è solo una questione di calorie: è un equilibrio fragile, regolato da meccanismi che il nostro organismo difende con sorprendente ostinazione. Non è pigrizia, è biologia. 

L’Italia, riconoscendo per legge l’obesità come malattia, rompe un tabù culturale prima ancora che sanitario. Ciò significa che chi ne soffre ha diritto a cure, percorsi personalizzati, supporto psicologico, e soprattutto rispetto. Un cambiamento culturale radicale. 

È un atto di civiltà. Che ci obbliga però a rivedere il modo in cui guardiamo a un miliardo di persone. Perché lo stigma, ancora oggi, è il peso più insopportabile. 

La persona affetta da obesità viene giudicata (prima ancora di essere ascoltata) quale pigra, golosa, indisciplinata. Nei luoghi di lavoro, nei mezzi pubblici, e persino negli studi medici, dove spesso riceve più biasimo che cure. Eppure lo stigma non aiuta nessuno: fa ammalare di più, non di meno. Alimenta il senso di colpa, l’isolamento, la depressione. Allontana dai percorsi di cura, spinge a nascondersi invece che a chiedere aiuto. 

E poi ci sono i falsi miti, che sopravvivono a ogni evidenza scientifica. E cioè: che basti la dieta, che si possa “guarire” da soli, che l’obesità sia solo un eccesso di cibo e non un problema metabolico e ambientale.

Il paradosso è che viviamo immersi in una società che promuove cibo ovunque, a basso costo e ad alta densità calorica (leggere, a tal riguardo, cosa dicono i prof che abbiamo interpellato, da Sbraccia a Sorrentino, passando per Principato e Barazzoni). Una società che al tempo stesso però idolatra la magrezza come parametro estetico e misura di valore morale. Ti spinge a consumare e poi ti giudica per averlo fatto. 

La prevenzione, certo, è essenziale. Anzi: è «un dovere di Stato» (parola del presidente Aifa, Robert Nisticò, che abbiamo intervistato – LEGGI: Obesità, il presidente di Aifa Robert Nisticò a TPI: “La prevenzione è un dovere dello Stato”). 

Ma affinché essa venga messa in pratica, occorre cambiare l’ambiente in cui viviamo: a partire cioè dal paradigma delle nostre città, al fine di incentivare il movimento anziché ostacolarlo (ma ciò può rivelarsi scomodo per il settore automobilistico e gli interessi che rappresenta); in secondo luogo, mense scolastiche sane, regole per l’industria alimentare e un’informazione onesta sui prodotti che mettiamo nel carrello. Significa istruzione ed educazione, sin dai primi anni, senza colpevolizzare chi, per ragioni economiche o culturali, non può permettersi di “scegliere sano”. 

La nuova legge italiana apre uno spiraglio di speranza (ne abbiamo parlato con il promotore, l’onorevole Roberto Pella). 

Ma per trasformarla in un cambiamento reale serve qualcosa che nessuna norma può imporre: un cambio di mentalità. Dobbiamo imparare a parlare di obesità con lo stesso rispetto con cui parliamo di diabete o ipertensione. Senza ironie, senza moralismi, senza la presunzione di sapere cosa “basterebbe” fare. 

In fin dei conti, se continuiamo a colpevolizzare chi soffre, se confondiamo la cura con la vergogna, non andremo lontano. Riconoscere l’obesità come malattia significa restituire dignità a un miliardo di persone e riportare il tema là dove deve stare: nella sfera della salute. 

La sfida, dunque, a partire da oggi, riguarda tutti: chi governa, chi comunica, chi cura. E mentre discutiamo di prevenzione, stili di vita e percorsi terapeutici, un nodo rimane aperto: l’accesso ai farmaci anti-obesità, efficaci ma ancora costosi, la cui rimborsabilità rappresenta l’ultimo grande banco di prova per un sistema sanitario che ha il dovere di trattare l’obesità come la malattia che è.

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