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Il nuovo disordine nucleare (di Francesco Bascone)

Immagine di copertina
Credit: AGF

Dalla vendetta su Gaza alla guerra preventiva contro l’Iran. Netanyahu punta sull’escalation per impedire l’atomica a Teheran. Trump applaude e si accoda. L’Europa tace e acconsente. Ma Usa e Israele ignorano la lezione della Guerra fredda

Quella che Israele conduce da venti mesi contro i palestinesi di Gaza è una guerra di vendetta, con un’ulteriore prospettiva di pulizia etnica, se non di sterminio. Contro l’Iran ha ora lanciato una guerra preventiva. Mira, dichiaratamente, a prevenire la costruzione di un arsenale nucleare, ma anche a disarmare l’Iran per impedirgli di vendicarsi con armi convenzionali e di tornare ad armare i suoi proxies arabi; e anche a distruggere le sue infrastrutture per ritardare la sua ripresa. Anche qui c’è un ulteriore, radicale obiettivo, probabilmente irrealistico: il regime change.

Deterrenza asimmetrica
Premesso che la guerra preventiva non è mai giustificabile, sul piano giuridico o sul piano morale, se non nel caso di un imminente attacco, ci si può domandare se sia razionalmente difendibile esporre la propria popolazione alla rappresaglia iraniana e a un lungo conflitto pur di impedire ad un avversario di acquisire l’arma nucleare. Questa arma in mano al nemico non sarebbe di per sé una minaccia esistenziale, dato che Israele possiede da vari decenni un deterrente nucleare (stimato in 100-200 bombe atomiche). Un first strike iraniano è impensabile anche perché provocherebbe una punizione devastante da parte degli Stati Uniti. Per quale ragione allora “non si deve permettere che Teheran possieda l’arma nucleare”, come ripetono in questi giorni non solo Trump ma anche i principali leader europei (compresa Giorgia Meloni), mentre si accetta che Israele abbia il monopolio di quell’arma in tutto il Medio Oriente? La logica (implicita, perché Israele non ha mai pubblicamente ammesso di possederlo) è che lo Stato ebraico, minacciato di annientamento dai suoi nemici e confinato in un territorio molto ristretto, ha bisogno di quel deterrente contro massicci attacchi convenzionali. Ma tale deterrente verrebbe neutralizzato qualora uno degli Stati ostili acquisisse l’arma atomica. Questo dogma della deterrenza asimmetrica ignora la lezione della guerra fredda: gli Stati Uniti avrebbero certo preferito detenere il monopolio della bomba A e poi della bomba H; ma avendolo perso nel giro di pochi anni, hanno capito che la mutua minaccia aveva un effetto stabilizzatore, anche in relazione alla tentazione di attacchi convenzionali. I principali Paesi europei (oggi si dice E3) e l’Unione Europea avevano comunque assecondato questa logica della deterrenza unilaterale e avviato trattative con Teheran, coinvolgendo gli Stati Uniti e gli altri membri del P5 (Russia e Cina). L’accordo raggiunto nel 2015 imponeva rigorosi limiti all’attività di arricchimento dell’uranio in Iran, garantendo che fosse utilizzabile solo per usi civili, e sottoponeva tali attività al controllo della Aiea. Il problema era dunque risolto, quanto meno a medio termine (15 anni).

Il fallimento della diplomazia
Nel 2018 Donald Trump, per fare un piacere a Netanyahu ma danneggiando la causa della non-proliferazione, revocò l’adesione degli Usa al JCPoA e reintrodusse tutte le sanzioni; diede così a Teheran una giustificazione per riprendere l’attività di arricchimento portandola fino al 60 per cento, cioè a un passo dal 90 per cento necessario per fabbricare delle bombe. L’atteggiamento del governo iraniano al riguardo è ambiguo: nega di avere l’intenzione di dotarsi dell’arma nucleare, ma al tempo stesso rivendica il diritto di arricchire l’uranio ben oltre il 3,5 per cento richiesto per gli usi civili, e non spiega a cosa serve arrivare a una concentrazione del 60 per cento. Inoltre ha tenuto nascosta alla Aiea l’esistenza di alcuni siti. La spiegazione è forse che, di fronte all’aggressività israeliana, è ora in via di superamento la preclusione etico-religiosa contro la bomba atomica, proclamata da Khamenei con una fatwa nel 2003. Altri ritengono che il governo degli ayatollah, al fine di avere un mezzo di pressione, o una merce di scambio per ottenere la revoca delle sanzioni, voglia arrivare alla soglia nucleare, senza per ora superarla.

Un programma solo ritardato?
Trump aveva fatto credere di aver cercato di dissuadere Netanyahu dall’attuare l’attacco pianificato, ma a posteriori ha definito «eccellente» l’azione israeliana, in quanto un Iran messo in ginocchio potrebbe venire a più miti consigli. Partendo (anzitempo) dal Vertice del G7 in Canada, ha addirittura fatto propria la guerra di Netanyahu e intimato al Paese aggredito la resa senza condizioni (un assist a Putin!) e minacciato di punirlo duramente se non si piega. Ma la tesi che l’iniziativa fosse sua, e Israele fosse un mero esecutore, non regge: gli Stati Uniti stavano negoziando con gli iraniani, l’attacco israeliano è stato sferrato due giorni prima della data fissata per il prossimo round. Anche in questo caso, è Israele a condizionare la politica di Washington, e non viceversa. Appare difficile giustificare razionalmente l’iniziativa decisa da Netanyahu. Probabilmente la tentazione di completare il lavoro fatto dopo aver indebolito tutti i proxies dell’Iran, di non lasciare inutilizzati tutti gli attentati predisposti in quel Paese dalla rete del Mossad, di approfittare della connivenza di Trump e della denuncia da parte della Aiea delle attività nucleari segrete in corso in Iran. Ma, se l’Idf non ha piegato in venti mesi la volontà di Hamas di resistere, come può illudersi di ottenere la capitolazione di un grande e fiero Paese come l’Iran, appoggiato oltretutto dalla Russia e dalla Cina? Le varie ondate di bombardamenti in corso, non sappiamo per quanto tempo, avranno certamente l’effetto di ritardare il programma nucleare dell’Iran; ma una parte dei siti non è vulnerabile, gli altri potranno essere ricostruiti. E, per quella parte della dirigenza di Teheran che ancora esita a varcare la soglia nucleare, quanto sta avvenendo in questi giorni servirà a superare gli ultimi dubbi. La minaccia iraniana si ripresenterà dunque fra qualche anno. Per spostarla ancora più in là nel tempo, Netanyahu ha ritenuto necessario il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti con le loro bombe che penetrano in profondità e i bombardieri capaci di trasportarle. Il Presidente americano si è prontamente messo a disposizione, e ha lanciato un ultimatum: a meno che Khamenei non accetti entro due settimane di rinunciare in toto al programma nucleare, gli Stati Uniti interverranno direttamente nel conflitto.

La “sorpresa” di Washington
L’attacco americano della notte del 22 giugno ai tre siti nucleari iraniani, compreso quello di Fordow (ma anche a capi militari e infrastrutture portuali) ha colto tutti di sorpresa. Il termine di due settimane era dunque un inganno? Quello che sappiamo è che ancora poche ore prima vari stretti collaboratori di Trump, fra cui il suo vice Vance e il Ministro della Difesa Hegseth, si erano detti nettamente contrari all’operazione, mentre Netanyahu aveva comunicato che Israele non poteva aspettare 15 giorni. Se ne può desumere che ancora una volta Trump si è lasciato guidare dal Premier israeliano, mettendo da parte le promesse elettorali, i timori per le possibili rappresaglie contro le guarnigioni americane nei vicini Paesi arabi, il pericolo che venga attuata la minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz. E dimenticando la lezione della guerra di Bush junior contro l’Iraq. In Iran come a Gaza, Netanyahu si è mostrato deciso a portare avanti l’opera di distruzione e umiliazione del nemico, senza una strategia per il dopo-guerra. Lo stesso può ora dirsi di Donald Trump. Quanto agli europei, parlano di de-escalation e di dialogo, ma intendono che Teheran farebbe bene ad accettare le condizioni dettate da Trump e rinunciare ad eseguire rappresaglie. Nessuna espressione di condanna per l’aggressore, anzi, il cancelliere Merz mostra gratitudine per Israele, «che fa per noi il lavoro sporco».

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