Le manifestazioni pro-Gaza possono segnare l’inizio di un nuovo Sessantotto?
Liquidare questi movimenti di massa come una moda o una fiammata di malcontento destinata a spegnersi sarebbe un errore. In essi c'è molto di quel movimentismo che, quasi mezzo secolo fa, mise alle corde i vecchi sistemi politici in Europa e in America. Meloni farebbe bene a non sottovalutare questo fenomeno montante. E le opposizioni dovrebbe costruire da qui il loro programma per le politiche del 2027
Non so immaginare se i milioni, anzi le decine di milioni di persone che scendono in strada in tutti i continenti – e in Italia a decine di migliaia e mezzo milione in occasione dello sciopero pro-Gaza proclamato dai sindacati di base – siano l’annuncio di un nuovo Sessantotto in chiave di resistenza morale alle malvagie sirene della guerra che risuonano nelle cancellerie europee. So invece che sarebbe un errore liquidare questi movimenti di massa come una moda o una fiammata di malcontento destinata a spegnersi.
C’è molto di profondo e radicale nella protesta incentrata, come è ovvio, sul genocidio di Israele a Gaza, ma destinata, in Europa, ad allargarsi in una opposizione di principio alle politiche dell’Ue declinate in versione bellicista e antipopolare.
Attualmente questo sentimento che scavalca mari e oceani ha poco di politico in senso stretto e molto di quel movimentismo che nel Sessantotto scavalcò in breccia, mettendoli alle corde, i vecchi sistemi politici in Europa e in America. Anche se, alla fine, non riuscì come era negli auspici degli animatori a rovesciarli, certamente segnò molti e decisivi punti nell’indirizzare il cambiamento.
La guerra americana in Vietnam, i golpe in Cile ed Argentina ispirati e sostenuti dalla Cia contro le fragili democrazie sudamericane, i sussulti del colonialismo morente in Africa furono gli inneschi che mobilitarono popoli diversi e lontani fra loro per tradizioni politiche, cultura e storia a scendere in piazza e a coagularsi in una protesta di massa che produsse effetti dirompenti.
In Francia il Sessantotto decretò al fine della Quarta Repubblica e il ritorno al potere, effimero però, dell’anziano generale De Gaulle. Negli Stati Uniti l’amministrazione repubblicana di Richard Nixon fu costretta a chiudere la fallimentare esperienza bellica in Vietnam, accettando l’idea che anche la massima potenza mondiale poteva perdere una guerra, evento mai avvenuto prima. In Germania Ovest l’Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt tessé un esile ma decisivo filo con i fratelli separati dell’Est re col mondo comunista. L’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Urss di Breznev segnalò i primi conati di ripulsa al socialismo reale da parte dei giovani occidentali che ne avevano innalzato la bandiera.
In Italia l’esperienza del centrosinistra, invano ostacolata dalle amministrazioni americane nei primi anni Sessanta, si rafforzò definitivamente anche sull’onda dei movimenti giovanili che reclamavano politiche sociali più avanzate e contestavano ai partiti tradizionali, Pci compreso, una eccessiva prudenza nelle riforme.
Purtroppo una scheggia di quei movimenti libertari si staccò dalla casa madre e produsse a sinistra (o almeno così parve allora) la monade impazzita della lotta armata. L’omicidio Moro sigillò definitivamente la stagione nata dieci anni prima fra tante speranze di palingenesi politica del Vecchio continente e del mondo.
Oggi la strage di civili a Gaza e in subordine la guerra insensata fra Russia e Ucraina stanno mobilitando le coscienze di milioni di cittadini. I partiti e i governi occidentali annaspano, stretti fra miseri interessi contingenti di bottega, rendite elettorali e sfide epocali. Sono costretti all’inseguimento affannoso di un movimento planetario trasversale che non risponde, se non in minima parte, ai canoni classici della lotta politica.
Chi ha frequentato le manifestazioni italiane si sarà accorto della presenza massiccia di intere famiglie, spesso con figli piccoli al seguito, moltissimi studenti e anziani, signore borghesi accanto ai giovani dei centri sociali. Un campionario svariatissimo della società italiana. Oltre ogni steccato ideologico. In nome dell’umanità calpestata a Gaza.
Fossi Giorgia Meloni non sottovaluterei questo fenomeno montante. Sbaglia la presidente del Consiglio ad evadere le questioni cruciali del nostro tempo, che tracimano fuori dall’alveo delle urgenze personali: il lavoro che manca, lo stipendio insufficiente, la scuola dei figli troppo costosa. La protesta popolare per Gaza segnala una mutazione di approccio profonda e Meloni farebbe bene a non sfuggirle inventandosi espedienti e tattiche di distrazione di massa destinate a durare lo spazio di un mattino.
Sotto quest’ultimo profilo la vicenda del suprematista americano Charles Kirk è paradigmatica. La maggioranza è giunta al punto di organizzare la commemorazione alla Camera di un personaggio sconosciuto agli italiani e irrilevante per le nostre vicende nazionali, non fosse che Kirk è stato arruolato dalla destra come l’icona di una libertà di pensiero a senso unico che proprio la destra sta minando con provvedimenti in odore di anticostituzionalità: decreto sicurezza in testa.
Kirk anche da morto resta l’esponente di una cultura razzista, messianica e violenta della quale certamente l’Italia non sente il bisogno. Dargli dignità è una meschina genuflessione a Donald Trump, un atto di sottomissione culturale e politica imbarazzante per l’Italia. I sovranisti nostrani si rivelano in tutta la loro pochezza.
Fossi l’opposizione a Giorgia Meloni non avrei timore di intestare i motivi e il cuore della protesta sgorgata nelle piazze al programma politico che prenderà forma in vista delle elezioni politiche del 2027. Meloni, finta sovranista, si è appiattita sulla politica estera americana e gareggia con Salvini nel mostrarsi deferente al sultano della Casa Bianca.
La nostra politica estera è copia e incolla delle posizioni Usa, in Medio Oriente. Nessun riconoscimento dello Stato di Israele, all’Onu Tajani recita il salmodiante ritornello dei “due popoli e due stati” che contraddice in toto la scelta di Netanyahu che dall’inizio della sua premiership, oltre vent’anni fa, ha sempre lavorato per scongiurare la nascita di uno stato palestinese. Sarà bene tenerlo a mente, mentre Canada, Regno Unito e Francia si uniscono ai circa 150 Stati che hanno già riconosciuto lo stato di Palestina o si apprestano a farlo.
L’Europa, timidamente, abbozza una strategia di sanzioni che dovrebbe indurre Israele a far tacere la armi. L’Italia cosa farebbe in caso di embargo totale e parziale? Chiederebbe consiglio all’anima di Charles Kirk in una seduta spiritica?