Guerre, tecnologia, industria: le grandi sfide del 2026 in un mondo sempre più frammentato (di Giulio Gambino)
Il 2025 è stato l’anno della sedimentazione dei conflitti, delle tensioni e delle fratture emerse negli anni precedenti. Il 2026 si apre dunque come un banco di prova: serviranno risposte strutturali, talvolta persino impopolari
L’anno che si chiude non consegna certezze, ma conferma una tendenza ormai strutturale: l’ingresso del sistema internazionale in una fase di instabilità prolungata. Il 2025 è stato l’anno della sedimentazione dei conflitti, delle tensioni e delle fratture emerse negli anni precedenti. Il 2026 si apre dunque non come un nuovo inizio, ma come un banco di prova: della tenuta degli equilibri globali, della capacità delle democrazie di governare il cambiamento e della possibilità, sempre più incerta, di distinguere tra potere politico, potere economico e potere tecnologico.
Sul piano militare, le guerre in corso hanno smesso di essere percepite come eccezioni. Sono diventate parte dello sfondo permanente dell’ordine mondiale. Non solo per la loro durata, ma per l’effetto che producono: normalizzazione delle ostilità, erosione del diritto internazionale, maggiore assuefazione dell’opinione pubblica.
Il rischio principale per il 2026 non è l’escalation improvvisa ma la cristallizzazione dei conflitti in forme croniche, capaci di drenare risorse, polarizzare alleanze e bloccare ogni ipotesi di cooperazione globale su dossier cruciali come clima, energia, migrazioni. Accanto alle guerre dichiarate, crescono le tensioni “sistemiche”: competizione tra grandi potenze, ritorno delle sfere di influenza, uso geopolitico delle catene di approvvigionamento, militarizzazione del commercio e della tecnologia.
Il mondo multipolare che prende forma non appare più cooperativo ma sempre più frammentato, privo di regole condivise e attraversato da una diffusa sfiducia reciproca. Il 2026 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui questa frammentazione diventa irreversibile o, al contrario, come l’ultimo in cui è ancora possibile governarla.
In questo scenario si inserisce, sullo sfondo, la grande trasformazione tecnologica. Che procede a una velocità superiore alla capacità delle istituzioni di comprenderla e regolarla. L’intelligenza artificiale, l’automazione e l’economia dei dati non sono più strumenti neutrali: ridefiniscono rapporti di potere, mercato del lavoro, sicurezza nazionale.
Le grandi piattaforme tecnologiche hanno consolidato una posizione che va oltre l’influenza economica. Gestiscono infatti infrastrutture cognitive, modellano l’accesso all’informazione, orientano comportamenti collettivi. Il loro strapotere non è più solamente una questione di antitrust, ma di sovranità.
La crisi dell’informazione è, in questo senso, il punto di contatto tra tecnologia e democrazia. Al suo apice. Nel 2025 si è ulteriormente spezzato il nesso tra verità, autorevolezza e diffusione. Il problema non è solo la disinformazione, ma la perdita di un terreno comune di realtà condivisa. Senza questo spazio, il dibattito pubblico si trasforma in una sommatoria di narrazioni incompatibili, facilmente manipolabili e difficilmente governabili. Il 2026 porrà con urgenza una domanda che la politica ha finora evitato: chi controlla l’informazione in un mondo digitale, e secondo quali regole?
Il bilancio dell’anno che si chiude è, tutto sommato, quello di un mondo più consapevole dei propri rischi, ma non ancora capace di affrontarli. Le sfide del 2026 richiederanno risposte strutturali, talvolta persino impopolari. È necessaria una politica di re-industrializzazione volta a favorire la ripartenza delle filiere produttive europee, capaci di attivare nuovi lavori e opportunità. In grado di riattivare i motori della crescita economica e sociale. In gioco non c’è solo la gestione delle crisi tout court, ma la possibilità stessa di ricostruire un ordine che non sia fondato esclusivamente sulla forza, sulla tecnologia o sulla paura.