Dialogo sull’Ucraina: Trump deluso da Putin (di F. Bascone)
La Casa bianca oscilla tra mediazioni fallite e disimpegno dai negoziati. Mosca rilancia le sue mire territoriali. Kiev, invece, cerca nuove strategie di sopravvivenza. L’Europa intanto non fa nulla per propiziare i colloqui di pace. Ignara del fatto che il tempo lavora a favore del Cremlino
Nelle ultime settimane Donald Trump ha continuato a ondeggiare fra pressioni su Kiev perché accetti condizioni di pace ingiuste (ma inevitabili) e la constatazione che è Mosca a rifiutare qualsiasi ragionevole compromesso; fra l’incrollabile fiducia nelle proprie capacità di mediatore e la tentazione di disinteressarsi di quel conflitto.
Un dialogo complicato
Dopo la delusione per i risultati della missione di Witkoff a Mosca, che erano sembrati promettenti («mi sta prendendo in giro?»), è tornato alla carica durante il viaggio in Arabia, cogliendo al balzo una palla lanciata da Putin: i colloqui a Istanbul, da lui proposti, potevano svolgersi al vertice, e lo stesso Trump era pronto a parteciparvi. Putin non ha abboccato, l’incontro russo-ucraino nella metropoli turca si è tenuto, il 16 aprile, al livello di alti funzionari, è durato meno di due ore e non ha fatto che confermare le posizioni massimaliste del Cremlino.
Il presidente americano ne ha dedotto che la situazione si poteva sbloccare solo attraverso un dialogo fra lui stesso e il dittatore russo. Ma la lunga telefonata fra i due di lunedì 19 maggio è stata un fiasco, e allora ha cambiato registro: la materia è troppo complicata, può solo essere trattata direttamente fra Zelensky e Putin.
Quest’ultimo continua a parlare di negoziati, precisando però che andranno sicuramente per le lunghe, e che intanto la guerra continua. Ribadisce i suoi obiettivi massimalistici e mette in guardia gli ucraini: se rifiutano di cedere quelle zone delle quattro regioni (formalmente annesse dalla Russia nel 2022) che ancora controllano, rischiano di perderne altre. Sembra dunque delinearsi un ampliamento delle mire territoriali della Russia.
Il 23 maggio il ministro degli Esteri Lavrov ha dichiarato: non permetteremo che i russofoni in Ucraina restino sotto la “junta” guidata da Zelensky, sarebbe un crimine. Se ne dovrebbe dedurre che sono ora nel mirino anche Kharkiv e Sumy nel nord, e nel sud non solo Kherson ma anche Mykolaiv e Odessa? In modo più chiaro, Putin ha annunciato di voler occupare una “fascia di sicurezza” sul lato ucraino del confine (che lambirebbe la periferia di Sumy e si avvicinerebbe molto a Kharkiv).
Trump ha commentato che forse la Russia vuole davvero prendersi tutta l’Ucraina, come lui aveva sospettato, ma questa «sarà la sua rovina». E, reagendo ai bombardamenti senza precedenti dello scorso fine settimana su varie città ucraine, il 26 maggio ha esclamato (con un post): «Putin è uscito pazzo!». Ha ventilato pesanti sanzioni, senza tuttavia prendere decisioni in tal senso, almeno per ora. Sembra di nuovo intenzionato ad abbandonare il tentativo negoziale – punendo così Zelensky per la malafede di Putin – ma non è detto che non cambi idea un’altra volta.
La grande illusione
Quanto al gruppo di punta degli europei (E3), ha incoraggiato Kiev a continuare la guerra, promettendo di rifornirla di armi senza più limiti di gittata, ma senza nascondere che considera l’assistenza Usa insostituibile. Non ha fatto nulla per propiziare colloqui di pace, anzi ha provato a dissuadere Zelensky consigliandogli di porre la precondizione di una tregua di 30 giorni, ben sapendo che Mosca la rifiuta. Ha criticato le realistiche concessioni proposte da Witkoff (riconoscimento dell’annessione della Crimea, status di neutralità), senza proporre altre vie di uscita da una guerra che secondo alcune stime è già costata quasi un milione di vittime fra morti e feriti gravi.
Questa linea della fermezza riflette una sottovalutazione della penuria di uomini al fronte di cui soffre l’Ucraina, e della capacità produttiva raggiunta dall’industria bellica russa. Ignora perciò che il tempo lavora a favore di Putin.
A sfatare queste illusioni è ora intervenuta una voce autorevole: Valerij Zaluzhnyj, ex-capo delle forze armate ucraine licenziato da Zelensky nel febbraio 2024 e mandato a Londra come ambasciatore, ha dichiarato il 22 maggio che non si può sperare nel miracolo di un ritorno ai confini del 1991 e neanche a quelli del 2022 (senza Crimea e parte del Donbass), in altre parole che recuperare una parte dei territori occupati dalla Russia è un’illusione. L’Ucraina, secondo il popolarissimo generale, deve optare per una lotta per la sopravvivenza imperniata sull’uso massiccio di droni lungo tutto il fronte (letteralmente una “high-tech war of survival”), in modo da minimizzare le perdite umane; non ha le risorse, anzitutto demografiche, per un altro tipo di guerra.
Gli amici dell’Ucraina dovrebbero dunque non solo incoraggiarla a resistere e fornirle armi, comunque insufficienti, ma provare a convincere Trump a riprendere i tentativi negoziali senza aspettare che la situazione sul terreno peggiori, e assecondare formule di compromesso compatibili con l’indipendenza e dignità di quel Paese.
Possibili vie d’uscita?
Lavrov, nell’inquietante discorso sui russofoni irredenti più sopra citato, aveva accennato a una alternativa meno radicale: si può risolvere la questione abrogando le leggi che discriminano i russofoni. Gli alleati occidentali potrebbero raccomandare a Zelensky di fare su questo punto un’offerta generosa: se non istituire la parità fra le due lingue, almeno abrogare la legge del 2019 che ha rafforzato la predominanza della lingua ucraina, togliendo a quella russa lo status di lingua regionale; ammettere cioè che questa sia riammessa nell’insegnamento secondario e universitario e nella vita pubblica nelle regioni in cui è parlata da più del 10 per cento della popolazione.
Compromessi sulle manifestazioni di nazionalismo, in primo luogo questa della lingua, uniti all’inevitabile rinuncia alla Crimea e alla adesione alla Nato, sono elementi essenziali per un negoziato costruttivo, controbilanciati da fermezza nel respingere le pretese russe di cessione di territori non ancora conquistati e di smilitarizzazione dell’Ucraina.