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Il grande inganno

Immagine di copertina
Credit: ZUMAPRESS.com / AGF

Ogni giorno che passa, ogni bomba che cade su un ospedale, ogni bambino estratto dalle macerie, il conflitto perde anche l’ultimo brandello di legittimità residua. Non è questione di essere pro-palestinesi o pro-israeliani. È questione di giustizia. E di umanità

A Gaza non si sta solo consumando una guerra: si sta perpetuando una tragedia. Ogni giorno che passa sotto le bombe, sotto l’assedio, senza cibo, acqua, elettricità o cure mediche, è una ferita che lacera non solo il corpo di una popolazione ma anche quello, sempre più fragile, del diritto internazionale. Eppure, la macchina della guerra continua. Il conflitto, iniziato come risposta all’attacco terroristico del 7 ottobre, si è trasformato in qualcosa di più oscuro: un impianto di violenza e devastazione che sembra non voler finire, sostenuto da un discorso politico tanto cinico quanto calcolato.

Benjamin Netanyahu si è posto alla guida di questa guerra con una narrazione apparentemente semplice: distruggere Hamas per garantire la sicurezza di Israele. Ma dietro questa promessa si nasconde una verità più amara, che inizia a emergere anche nei settori più moderati della diplomazia internazionale. La distruzione totale di Hamas non è solo un obiettivo tecnicamente irrealizzabile, ma rischia di essere un grande inganno, funzionale più a interessi politici interni che alla reale sicurezza dei cittadini israeliani. Il conflitto prolungato, infatti, permette a Netanyahu di mantenere il potere, sottraendosi alla crisi politica e alle sue beghe giudiziarie che lo stavano travolgendo da prima del 7 ottobre.

In questo contesto, la popolazione palestinese di Gaza diventa ostaggio non solo di Hamas, che da anni governa con pugno di ferro, ma anche dello stesso Netanyahu. La guerra, lungi dal colpire in modo chirurgico i miliziani, ha devastato ogni infrastruttura civile: ospedali, scuole, centri Onu. Più di 35mila morti, la maggior parte civili, tra cui decine di migliaia di bambini. Una catastrofe umanitaria in parte documentata, talvolta anche denunciata, ma semplicemente lasciata correre. Una punizione collettiva che viola il diritto internazionale e che però viene tollerata, se non giustificata, da una parte consistente della comunità internazionale.

Ciò che rende questa situazione ancora più insostenibile è l’ambiguità di Netanyahu nei confronti di Hamas. Negli anni precedenti, il suo governo ha di fatto tollerato, se non favorito, la sopravvivenza del gruppo estremista, nella convinzione che un nemico radicale e intransigente a Gaza avrebbe impedito la nascita di un vero interlocutore palestinese, isolando l’Autorità Nazionale Palestinese e affossando ogni prospettiva di soluzione politica come quella a due Stati. Oggi la retorica sulla “eliminazione totale” di Hamas suona tanto più ipocrita quanto più si conosce questa storia. È difficile credere che si voglia davvero estirpare Hamas quando si è fatto così poco, negli anni, per rafforzare le forze moderate palestinesi.

Così arriviamo a oggi. La guerra si alimenta della sua stessa impossibilità: non si può sradicare Hamas senza distruggere Gaza, ma distruggere Gaza rafforza l’odio, alimenta nuovi miliziani, spinge le generazioni future verso il radicalismo. Netanyahu lo sa, eppure continua. Perché nel caos della guerra, i processi a suo carico vengono rimandati, l’opposizione interna si divide, l’attenzione mediatica si concentra sul conflitto esterno, non sulla crisi democratica israeliana. Una strategia disperata, ma politicamente efficace.

Intanto, la comunità internazionale balbetta. Gli Stati Uniti, pur mostrando segni di impazienza, continuano a fornire armi e copertura diplomatica. L’Europa emette comunicati preoccupati ma evita sanzioni o vere pressioni (come è giustificabile porsi così duramente nei confronti di Putin e non nei confronti di Netanyahu?). Il diritto internazionale, quello che si applica sempre con rigore ad altri contesti, qui viene sospeso. Perché Israele è uno Stato amico, certo, perché la sua sicurezza è intoccabile, anche, ma soprattutto perché nessuno vuole affrontare l’impopolarità di una presa di posizione netta. Così il grande inganno continua.

Ma tutto questo non è più sostenibile. Né dal punto di vista morale, né da quello politico, né da quello umanitario. Ogni giorno che passa, la guerra a Gaza perde anche l’ultimo brandello di legittimità residua. Ogni bomba che cade su un ospedale, ogni bambino estratto dalle macerie, ogni profugo affamato, è un atto d’accusa verso un sistema che ha smarrito la bussola. Non è questione di essere pro-palestinesi o pro-israeliani. È questione di giustizia. E di umanità.

Se la comunità internazionale non saprà, o non vorrà, porre fine a questa tragedia, allora dovrà riconoscere la propria complicità. Il tempo delle ambiguità è finito. Gaza impone una scelta: continuare a fingere che questa sia una guerra come le altre oppure ammettere che è una catastrofe evitabile, tenuta in vita da chi ha fatto delle bombe una propria strategia politica.

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