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La pace fragile a Gaza (di F. Bascone)

Immagine di copertina
Credit: AGF

L’indeterminatezza delle clausole militari dell’accordo, l’incognita della restituzione dei resti degli ostaggi e la continua uccisione di civili palestinesi. La tenuta della tregua nella Striscia dipende da un precario equilibrio tra governance locale e tutela internazionale. Ma dovrà fare i conti con la ineliminabile presenza di Hamas

Le alee che gravano sull’accordo di pace per Gaza sono in primo luogo quelle derivanti dalla indeterminatezza delle clausole militari: il disarmo delle milizie jihadiste, che Hamas intende limitato alle armi pesanti; il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia (che ne occupa ancora il 53% e Israele vuole mantenere permanentemente il controllo su una fascia di sicurezza lungo i confini); i tempi dello spiegamento della forza di stabilizzazione internazionale, e le sue regole di ingaggio.
Nell’attesa che quella forza di “peacekeeping” divenga operativa, è accettato che Hamas presidii le strade con i suoi settemila o più armati per mantenere l’ordine, soprattutto impedire rapine, saccheggi e assalti ai convogli umanitari. Deplorevole ma difficilmente evitabile è che usi quei miliziani per regolamenti di conti con le gang rivali e le presunte spie o, peggio, con i collaborazionisti. Che verso questi ultimi venga dai governi arabi raccomandata moderazione sarebbe auspicabile; ma nessuno se ne cura più di tanto. Gli stessi israeliani hanno dichiarato che non faranno nulla per proteggerli, devono vedersela da soli.

Due pesi e due misure?
Più inquietante è che continuino le uccisioni arbitrarie di civili palestinesi, anche bambini, che si avvicinano troppo alle posizioni tenute dai militari israeliani, senza che costituiscano una minaccia. Sono forse tollerabili solo perché da 50-100 al giorno sono scese a poche decine in una settimana? Come giustificare che vengano considerate infinitamente meno rilevanti che la vita e la libertà di 20 ostaggi israeliani? Questi “double standards” (due pesi e due misure) possono solo essere definiti come indici di (inconsapevole?) razzismo. Se così non fosse, gli americani dovrebbero dire al governo israeliano: ci siamo impegnati per farvi riavere vivi venti vostri connazionali perché la vita di ciascuno di loro ha un valore inestimabile, ora è inaccettabile che uccidiate lo stesso numero di palestinesi innocenti in pochi giorni, perché la loro vita non vale di meno.
Invece Trump minaccia Hamas di autorizzare Israele a riprendere la mattanza se non verranno rapidamente consegnate le spoglie di tutti gli ostaggi morti (vittime, nella gran maggioranza dei casi, di bombardamenti israeliani). Dunque migliaia di vite palestinesi sarebbero il giusto prezzo per una ventina scarsa di cadaveri ebrei mancanti. È un problema morale che dovrebbe interrogare le coscienze di tutti gli amici di Israele. Ma può anche mettere in pericolo la tenuta del cessate-il-fuoco. Netanyahu si è precostituito un pretesto per tornare a bombardare e demolire, anche senza una violazione volontaria degli impegni da parte dell’avversario. Hamas ha dimostrato la sua buona volontà riguardo a questa parte dell’accordo, liberando puntualmente tutti gli ostaggi vivi; ora incontra oggettive difficoltà a reperire corpi sepolti sotto le macerie (come dimostra l’offerta di Egitto e Turchia di mandare apposite squadre di specialisti con adeguate attrezzature).
Se consideriamo che un analogo problema si pone per il recupero di circa diecimila dispersi palestinesi, presumibilmente sepolti fra le rovine di edifici bombardati, si riaffaccia in modo imbarazzante il paradosso del diverso peso attribuito agli uni e agli altri, che siano prigionieri maltrattati, civili innocenti massacrati o, appunto, cadaveri.

Tregua e aiuti in pericolo
Nel silenzio degli europei, è da auspicare che gli interlocutori arabi e l’autocrate di Ankara raccomandino a Trump di revocare l’avallo a un’eventuale rottura della tregua in caso di impossibilità di consegnare tutte le salme; e anche di vietare le restrizioni all’afflusso di trasporti umanitari motivate da Gerusalemme come punizione per i ritardi nell’effettuare quella operazione. Un’analoga flessibilità dovrebbero chiedere alla Casa bianca sul disarmo (lasciare alle milizie le armi leggere), magari come contropartita per l’incompleto ritiro delle Idf (vedi la fascia di sicurezza lungo il confine).
Il presidente Trump, se vuole evitare il crollo del suo tanto sbandierato successo diplomatico, dovrebbe anche impedire a Netanyahu di trarre pretesto da un isolato attacco (opera di guerriglieri non controllati da Hamas, se non addirittura di provocatori al servizio di estremisti israeliani) per riprendere l’offensiva e bloccare gli aiuti in violazione degli accordi di Sharm el-Sheikh. Sarebbe un supplemento di reazione ingiustificato, dato che ci sono stati due israeliani uccisi, ma decine di palestinesi ammazzati dopo l’incidente e nei giorni precedenti. Spiegabile solo con un cedimento alla pressione dei ministri Ben Gvir e Smotrich perché sia rovesciato il tavolo.

I prossimi passi
Nell’ipotesi che, aggirando questi scogli, si riesca a consolidare il cessate-il fuoco e attuare le clausole militari, in una fase successiva si dovranno affrontare i vari aspetti problematici del piano in venti punti che riguardano la “governance”.
Il protettorato internazionale è stato aspramente criticato perché nega l’autogoverno ai palestinesi di Gaza, ma se limitato a un periodo non troppo lungo e depurato dai residui dell’indecente progetto “Riviera” è il male minore. L’Autorità nazionale palestinese (Anp), che Netanyahu vorrebbe tenere lontana, deve prendere il posto, entro qualche anno, della squadra di tecnocrati, scelti e supervisionati da Trump, Blair & Co, e indire elezioni appena possibile.
Ma dovrà fare i conti con la ineliminabile presenza di Hamas, ridotta nella migliore delle ipotesi a partito politico e serbatoio di reclute per la polizia locale. Ricordando il sanguinoso golpe del 2007, che portò alla estromissione dell’Anp dalla Striscia, la presenza di un forte arbitro internazionale dotato di un credibile braccio armato (la forza di stabilizzazione) è una alternativa preferibile a una prematura sovranità che potrebbe sfociare in una nuova guerra civile.

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