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Osannato dalla stampa, santificato dai partiti: così Draghi il Migliore è caduto nella sua stessa ragnatela (di G. Gambino)

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Prima ha deciso di aprire la crisi di governo nonostante avesse una maggioranza plebiscitaria. Poi ha completato l’harakiri presentandosi al Senato con un discorso da pieni poteri. Che lo ha reso, ove possibile, ancora più inviso alle forze politiche da cui dipende in Parlamento.

S&D

I partiti, stanchi di essere trattati come un orpello della Repubblica, lo avevano già avvertito a febbraio scorso, quando gli hanno negato l’elezione al Quirinale. Ora l’hanno messo definitivamente K.O. con uno scacco matto. Anzi: Scacco Mario. Ma invero all’angolo, Draghi, ci si è messo da solo. Chiudendo a priori a ogni forma di mediazione, di dialogo. Finanche di scontro. Prendere o lasciare. «Siete pronti?», ha chiesto ai senatori in Aula. No.

Lui – «stufo, stanco, che non ce la fa più» – molla. E nel descriverlo così, i giornali non si sono resi conto che questa operazione mediatica è ciò che forse più gli ha fatto male da quando è arrivato a palazzo Chigi. Non gli errori politici, i ritardi sul Pnrr; quelli sono primato comune per tutti. Ma il ritratto del santino, il prof, il maestro in cattedra. Il Salvatore. E tutti gli altri asini.

Ed è per questo che non torna il racconto. L’uomo che ha salvato l’euro, che ha tenuto insieme l’Europa, cede davvero solo perché avverte un’insostenibile stanchezza a causa di quattro politici-per-modo-di-dire che lo punzecchiano ai fianchi, così come la natura della politica prevede? Viene allora da pensare che tutto questo – la crisi prima, il discorso al Senato poi – sia stato solo un pretesto bello e buono. Per far cosa?

Innanzitutto per spaccare la giostra su cui lui stesso ha accettato di salire e che ha tentato di abbandonare per ben due volte (nemmeno fosse un circo e noi il suo divertissement quotidiano). La prima quando s’era auto-candidato al Quirinale e invece è rimasto a bocca asciutta, pur avendo ordito dall’inizio del suo mandato il piano di sostituire Conte pro-tempore e poi prendere il posto di Mattarella. La seconda adesso, stufo di chi gli sta intorno e di avere a che fare con una banda di matti nella maggioranza più divisiva di sempre (un’accozzaglia tale che di migliore ha poco o nulla). A fare un lavoro che non gli piace e che sarebbe dovuto terminare sei mesi fa. E con una bomba sociale pronta a esplodergli tra le mani il prossimo autunno.

Non poteva quindi certo finire così. Che l’uomo, oggi guidato da un malmostoso spirito di revanche, venisse fregato dalla politica un’altra volta. Draghi sapeva che andarsene senza la conta dei danni, senza un’ultima prova di forza, avrebbe significato indebolire la sua figura agli occhi dell’opinione pubblica. Di qui il suo intervento in Senato e l’idea di addossare sulle forze politiche la mancata fiducia nel voto in Aula («Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi? Sono qui, in quest’aula, oggi… solo perché gli italiani lo hanno chiesto… Questa risposta… non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani», disse l’uomo che non è mai stato eletto da nessuno). Ma anche la volontà di rompere gli equilibri interni ai partiti: il M5S con Di Maio, Forza Italia con Gelmini e Brunetta e, chissà, forse presto anche la Lega con Giorgetti). Un repulisti della «cattiva politica» per gettare le basi di un grande centro pro-establishment nel nome dell’anti-politica. In una parola: Draghicrazia.

L’operazione ha avuto la sua degna conclusione quando di recente Luigi Di Maio ha stabilito – non si sa bene perché, e a che titolo – che il M5S è finito e che ora quello è il partito di Conte. Ed è proseguita per tutta la settimana con il coro a reti unificate sugli appelli affinché Mario restasse al suo posto.Sapevate ad esempio che tutti i camionisti italiani – miracolosamente auto-riunitisi nel giro di tre giorni in un mega gruppo WhatsApp – hanno gridato il loro sostegno a Draghi? Miracoli della stampa italiana che ha mobilitato i suoi migliori reporter e li ha sentiti tutti quanti, questi camionisti italiani, al punto da determinare che sono fan del banchiere, nessuno escluso. Figure mitologiche al pari del clochard di Piazza San Silvestro a Roma, sfortunatamente muto per decenni e a cui oggi è tornata la parola: «Io che sono un barbone lo vedo… Draghi fa la differenza… per noi ha fatto molto», ha detto. Oppure ci sono i sindaci riuniti in un appello corale al sostegno di Super Mario. Salvo poi scoprire che uno di loro – il primo cittadino di Palermo, da noi interpellato – non ha mai firmato perché Draghi restasse. Roba da Istituto Luce, da Venezuela.

E visto che senza Draghi non sorgerà più il sole, ecco che ora anche il Pnrr, senza il banchiere al governo, è improvvisamente a rischio. Come no. Con Mario premier, invece, i progressi sono già evidenti, ne abbiamo da poco dato conto all’Europa. Come? Firmandoci da soli un’auto-certificazione per sostenere che abbiamo fatto i compiti quando invece siamo in palese ritardo (leggete l’articolo di Alessandro Gilioli sullo scorso numero). E meno male che a gestire il Recovery c’era l’uomo che viene dalla consulenza, scuola McKinsey: nemmeno quella è servita a fargli comprendere le differenze tra milestones e target.

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