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Condividere contenuti razzisti dicendo quanto siano razzisti, non fa di voi degli antirazzisti (di I. Dimassi)

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Come si fa non provare disgusto all’idea di avere sui vostri profili social video o foto del genere? Se condividete video o screenshot senza porvi nemmeno la minima questione di tutelare la vittima, allora significa che non vi è alcun interesse per la violenza che ha subito la persona. La cosa più forte e importante che potete fare in questo caso è una: segnalare sempre

Vorrei chiarire una cosa con tutti voi.

Condividere sui social contenuti multimediali in cui è in atto una forma di violenza razzista (o qualsiasi altra forma di violenza) dicendo quanto siano razzisti, non fa di voi degli antirazzisti. Anzi, tutto il contrario.

Soprattutto se condividendo questi contenuti non vi curate minimante del fatto che siano presenti persone, corpi, voci che devono essere tutelati, avendo almeno la minima decenza di censurarne il volto, visto che il concetto di consenso spesso non è nemmeno contemplato.

Interagire con i contenuti razzisti dicendo quanto siano razzisti, non fa di voi degli antirazzisti. Anzi.

Così facendo sfamate l’algoritmo che non si cura minimamente del contenuto, all’algoritmo interessa soltanto che il contenitore sia degno di attenzione per farlo girare il più possibile, e così facendo contribuite alla crescita della platea che si vedrà proposta un video in cui al centro c’è una persona vittima di violenza razzista. In questo modo questo video arriverà anche a chi certe cose le ha sempre pensate, legittimando azioni e linguaggi che prima non pensava di poter pronunciare ad alta voce, sentendosi validate e in diritto di emulare certi comportamenti.

Perpetuando questi meccanismi non state facendo una lotta antirazzista, state alimentando il consenso la diffusione di contenuti razzisti. 

Ma soprattutto ponetevi una domanda importante: come fate a non provare disgusto all’idea di avere sui vostri profili social video o foto del genere? Anche se nella didascalia scrivete quanto tutto ciò vi faccia ribrezzo, in realtà non è così, perché se siete in grado di guardarli, condividerli senza inorridire all’idea che quel contenuto compaia sulle vostre bacheche, nelle vostre storie, vicino al vostro nome, in realtà questo tipo di discorso almeno un minimo è sdoganato anche nella vostra testa. 

Allora spegnete un secondo i telefoni e chiedetevi cosa sta succedendo dentro di voi. Quanto stiate lottando con il vostro razzismo interiorizzato. 

Perché non siete giornalisti che possono almeno avvalersi della scusa del diritto o dovere di cronaca, siete semplici cittadini e utenti di strumenti social che vi danno l’illusione di essere autorizzati a dire o condividere tutto quello che passa nella vostra testa.

Non appropriatevi delle battaglie che non vi appartengono: se una certa minoranza o comunità razzializzata deciderà di avanzare una lotta, spetta a loro decidere quale linguaggio, metodo o strumento utilizzare. Quali contenuti comunicare. Noi abbiamo il dovere di essere alleati e sostenerli, perché è della loro sensibilità e della loro sofferenza che si parla, non della nostra. 

Il concetto del consenso si allarga a tantissimi ambiti, e se non vi è nemmeno passato per la testa che alla vittima possa far soffrire l’idea che sulla rete possa circolare la sua faccia e il suo corpo come oggetto d’odio, abbiamo davvero un grande problema da affrontare. 

La cosa più forte e importante che potete fare in questo caso è una: segnalare sempre. 

E il mio ultimo appello, poi, lo rivolgo a voi, politici di sinistra, progressisti, femministi, antirazzisti e con tutti gli appellativi con cui preferite definirvi: se condividete video o screenshot senza porvi nemmeno la minima questione di tutelare la vittima e censurare almeno (dico almeno!) il suo viso, allora lì l’interesse non è per la violenza che ha subito la persona, lì l’interesse è quello di fare campagna elettorale sulla violenza che ha subito la persona. E la questione non è meno disgustosa.

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