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In che direzione sta andando il conflitto in Siria

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In seguito alla tregua, il conflitto sta entrando in una nuova fase. L'analisi di Eugenio Dacrema

Il primo maggio 2003 George W. Bush dichiarò il “mission accomplished” della guerra in Iraq. Ora sappiamo che di “accomplished” c’era ben poco e che quel pomposo messaggio dichiarato al mondo a bordo della nave USS Abraham Lincoln in realtà significava semplicemente la trasformazione del conflitto iracheno in un altro tipo di guerra.

Non più battaglie campali e operazioni su vasta scala, ma una lunga e logorante guerriglia fatta di attentati, bombardamenti mirati e brevi battaglie urbane che per molti anni a seguire logorerà lentamente le forze americane.

Tredici anni dopo è toccato a un altro leader mondiale – un russo, segno di un mondo sempre più multipolare – dichiarare il “mission accomplished”, questa volta nella Siria devastata da cinque anni di guerra civile.

E anche questa volta, a sole due settimane dall’altrettanto pomposa dichiarazione, più che di pace si può già parlare piuttosto dell’entrata del conflitto in una nuova fase.

C’è infatti una tregua. Non stretta tra regime siriano e opposizione, ma piuttosto fra Russia e Stati Uniti. È una tregua sui generis, flessibile e aperta a tante eccezioni.

Ne sono fuori gruppi radicali come Jabhat al-Nusra o Ahrar al-Sham, che però in molte zone si sovrappongo ad altri gruppi tecnicamente compresi nella tregua, ma che non per questo sono risparmiati dalle bombe destinate ai primi due.

Ne sono fuori, perché volutamente ignorati, i piccoli conflitti che qua e là scoppiano perché una o l’altra parte pensa di poter velocemente sfruttare dei punti deboli o dei momenti di “guardia bassa” dell’avversario, sapendo che nessuno recriminerà seriamente per una rapida offensiva se non dura più di poche ore.

Ne ha approfittato diverse volte il regime nei primi giorni seguiti alla dichiarazione della tregua, ma ne ha approfittato in questi ultimi giorni anche l’opposizione, con una rapida offensiva delle forze ribelli – in molti casi capitanate da Jabhat al-Nusra – che hanno riconquistato numerosi territori e villaggi nel nord del paese, infliggendo le prime sconfitte al regime siriano dopo mesi di arretramenti.

Una offensiva che ha visto il mancato intervento dell’aviazione russa (la quale, dichiarazioni a parte, è ben lungi dall’essere stata ritirata) a sostegno dell’esercito di Assad.

Un messaggio, forse, a quel regime che con le elezioni legislative “unilaterali” del 18 aprile sembra aver mandato un chiaro e deludente segnale ad avversari e alleati circa la propria serietà nell’intraprendere vere negoziazioni che portino a una transizione condivisa del sistema politico.

Ed è qui che si arriva ai due grandi problemi che al momento, e probabilmente per molto tempo ancora, impediranno una vera risoluzione del conflitto.

In primo luogo vi è la sempre più evidente incapacità del regime a intraprendere qualunque riforma al suo interno. Possono cambiare l’apparenza, le elezioni legislative, la retorica e forse perfino qualche articolo della costituzione.

Ma il regime, quello vero, quello formato da rete informali ma solidissime che reggono i tre pilastri del potere siriano (clientelismo economico, esercito e milizie, apparati di sicurezza), quello no.

Le sedi del potere reale, dalla persona del presidente agli uomini che reggono le fila del sistema economico e dei micidiali corpi di sicurezza interni, non sono negoziabili. Difficile che in queste condizioni qualunque opposizione accetti qualsiasi accordo.

Il secondo grande ostacolo, uguale e contrario al primo, è l’incapacità dimostrata dall’opposizione nell’offrire una seria e credibile alternativa al regime.

I motivi e le “colpe” sono tanti e di molti, a cominciare dalla volontà dei sostenitori internazionali dell’opposizione di privilegiare il finanziamento della lotta armata piuttosto che dell’amministrazione civile.

Il governo alternativo era l’obiettivo della famosa “Coalizione per le forze rivoluzionarie e di opposizione” nata a Doha nel 2013 che è oggi un contenitore privo di significato, ancora esistente ma a tutti gli effetti sostituito dall’”Alto Comitato per le Negoziazioni” costituito a Riyadh a inizio 2015.

Una formazione dal nome breve e pragmatico come le sue rivendicazioni, assai più contenute e limitate di un tempo, e composta soprattutto da ex “defector” del regime: personaggi meno idealisti ma che conoscono bene punti di forza e punti deboli di coloro che hanno di fronte al tavolo di Ginevra.

In un quadro già così complesso viene inoltre facile dimenticare che quando parliamo del conflitto fra regime e opposizione parliamo di qualcosa che in realtà riguarda meno della metà del territorio siriano.

Una nota positiva della nuova fase di “tregua armata” a cui assistiamo è che, al contrario del passato, l’attacco all’Isis è diventato per entrambi gli schieramenti un elemento immancabile delle proprie offensive, soprattutto per renderle accettabili ai partner internazionali.

La parte del leone in questo senso l’ha fatta il regime con la riconquista di Palmira da cui i miliziani dell’Isis sono stati messi in fuga dopo oltre un anno.

Ma anche l’opposizione si è data da fare, scacciando l’Isis – che ormai ha seri problemi di coesione interna e operatività militare – da alcuni villaggi in offensive minori.

Infine c’è la questione curda, che sarebbe meglio definire la questione del Pyd (braccio siriano del Pkk), trascurata ostinatamente in tutte le negoziazioni fra regime e opposizione, ma diventata ormai un enorme elefante che si aggira nelle sale di Ginevra e che è ormai sempre più difficile ignorare.

Il Pyd della battaglia di Kobane, delle donne guerriere immortalate dalla stampa di tutto il mondo e del sogno “socialista e democratico” di Rojava.

Il Pyd che è riuscito nel miracolo di farsi appoggiare militarmente sia dagli americani sia dai russi sta scoprendo in questo periodo di avere molti più amici in terre lontane piuttosto che a casa propria.

Una casa dove è circondato dai turchi, che massacrano ormai da mesi i loro alter-ego del Pkk e che pianificano offensive contro di loro anche in terra siriana, o dagli arabi con cui dividono molti territori di “Rojava” e i quali (spesso giustamente) non si fidano e si oppongono al futuro assetto politico in cui vivrebbero sotto il Pyd.

C’è poi ovviamente il regime siriano, che li ha lasciati fare per molto tempo in una tacita alleanza contro l’opposizione arabo-sunnita e l’Isis, ma che sicuramente non li ama e non è certo disposto a cedere loro l’intero nord del paese.

Infine, sebbene ignorate dalla stampa internazionale, ci sono le altre fazioni curde-siriane raccolte all’interno del “Consiglio nazionale curdo”, marginalizzate dal potere spesso in modo violento ma che continuano a rappresentare una parte della popolazione curda in Siria.

Forse un po’ troppi nemici perché la dichiarazione dello stato di Rojava all’interno di un futuro stato federale siriano fosse accolta che grande entusiasmo.

In un secondo miracolo dopo l’appoggio russo-americano, il Pyd è riuscito infatti a incassare il rifiuto all’unisono di regime e opposizione.

Il primo perché da sempre ripete ossessivamente – e inverosimilmente – di non voler rinunciare a un solo briciolo della propria sovranità sulla Siria, la seconda perché intravede nel progetto del Pyd un grande pericolo per l’unità siriana, non solo rispetto al nord curdo, ma anche per tutto il resto del paese.

Oltre che di Rojava andrebbero infatti tracciati i confini degli altri “stati membri” della federazione. Confini che dopo un conflitto del genere avrebbero immancabilmente un carattere settario, sancendo definitivamente la settarizzazione della società e dello stato siriani.

Una prospettiva non proprio ideale, certo, ma che lascia fuori un’altra possibile soluzione, quella federale, a un conflitto ora diventato “tregua armata” ancora privo di qualunque prospettiva di una fine credibile.

— L’analisi è stata pubblicata da Ispi Online con il titolo “Siria: la nuova fase delle ‘tregua armata’” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore. 

*Eugenio Dacrema è ricercatore associato del programma mediterraneo dell’Ispi.

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