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    Lula libero e Morales deposto: che succede alla sinistra radicale in America Latina?

    Di Veronica Di Benedetto Montaccini
    Pubblicato il 11 Nov. 2019 alle 19:00 Aggiornato il 12 Nov. 2019 alle 13:37

    Dopo tredici anni dalla prima elezione di Evo Morales a presidente della Bolivia, dei leader della cosiddetta “marea rosa” o “svolta a sinistra” in America Latina – così era stato definito il blocco di democrazie sudamericane che avevano eletto leader di sinistra – non rimane quasi più nessuno.

    L’America Latina ha una storia intricata e tentacolare di politiche di sinistra che si scontrano con più forze reazionarie.

    Lula libero in Brasile e Morales deposto in Bolivia

    Proprio questo fine settimana, il 10 novembre, il presidente della Bolivia Evo Morales ha annunciato le sue dimissioni in seguito alla decisione di del comandante dell’esercito boliviano, il generale Williams Carlos Kaliman Romero, che ha chiesto al presidente di “rinunciare al suo mandato per il bene della Bolivia”.

    Intanto, in Brasile l’ex presidente Lula Da Silva prima di essere scarcerato dopo 580 giorni di prigionia è stato spettatore dal carcere della vittoria nelle urne dell’ultra-destra di Jair Bolsonaro, mentre in Argentina la saga dei Kirchner ha lasciato il posto a Mauricio Macri, anche se Cristina Fernández è recentemente tornata al potere come vicepresidente nelle ultime elezioni, e la Colombia è ora governata dalla destra di Iván Duque.

    Quali ripercussioni potrebbe avere lo sconvolgimento politico boliviano su tutto lo scacchiere dell’America latina?

    Il caso Venezuela

    Dall’inizio dell’anno sull’America Latina sembra essersi concentrata l’attenzione dell’imperialismo statunitense, impegnato a cercare un terreno su cui conseguire una vittoria dopo il danno d’immagine accusato per le sconfitte nelle crisi siriana e nordcoreana. Il 2019 è stato l’anno del Venezuela – ovvero dei tentativi di destabilizzare la rivoluzione chavista e rovesciare il governo di Maduro.

    Dopo la svolta politica di governi di sinistra come quello ecuadoriano di Lenín Moreno che ha tolto il suo esplicito sostegno al governo chavista, Nicolás Maduro è più solo che mai tra i suoi vicini.

    In questo scenario, Morales è l’unico presidente che si è sempre battuto in sua difesa. Un esempio tra tutti, lo scorso settembre i leader latinoamericani di tutti i paesi amazzonici si sono incontrati a Leticia, in Colombia, per coordinare le azioni di fronte alla crisi degli incendi. Ma l’unico a non ricevere l’invito è stato Maduro, mentre l’unico a protestare per il suo mancato invito è stato proprio Morales.

    “Il mondo sa che il presidente Maduro è sopravvissuto a un colpo di stato, a un intervento militare americano, e deve affrontare un blocco economico”, aveva dichiarato il presidente boliviano alla fine del suo intervento, protestando per la mancata presenza di Maduro e ricordando come “al di sopra delle differenze ideologiche ci sono i diritti della Madre Terra”.

    Morales è stato un fermo sostenitore di Chávez e del governo di Maduro. Il presidente boliviano ha criticato gli Stati Uniti e l’Ue per le loro sanzioni sostenendo che gli Stati Uniti stanno conducendo una guerra economica contro il governo di Maduro e la Rivoluzione Bolivariana.

    I rapporti geopolitici

    Il mandato di Morales è stato caratterizzato anche dalle relazioni economiche intessute con paesi come la Cina e la Russia. Nel corso di questi 13 anni ha avviato progetti con le potenze russe e cinesi, di cui molti non ancora completati. Tra questi, nientemeno che la realizzazione di una centrale nucleare da parte di Mosca in territorio boliviano.

    Per l’opposizione l’ingerenza russa e cinese è cresciuta negli ultimi anni, fenomeno fortemente contestato perché porterebbe a uno sfruttamento del territorio, che con le sue riserve di litio, tra le più grandi al mondo, farebbe gola ai paesi esteri.

    Per ora il principale rivale alle urne, Carlos Mesa, noto per le sue misure neoliberali mentre era presidente, non si è pronunciato su questo tema.

    Lula diventa un simbolo

    In questo clima, a riaccendere la speranza in America Latina è la notizia di Lula libero. “Viene restituito un uomo diventato un simbolo”, commenta l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica. Un simbolo di dignità, giustizia e uguaglianza sociale. Di lotta alla povertà e di sovranità nazionale.

    Uscito dal carcere l’8 novembre scorso, l’ex presidente brasiliano ha ribadito: “Non è me che hanno voluto incarcerare, ma un’idea”. E quell’idea di giustizia sociale e di integrazione dell’America latina è disposto a portarla avanti “con più forza di prima”.

    Appena fuori dal carcere di Curitiba Lula è già l’anti Bolsonaro, il presidente dell’odio razziale e di genere, il Trump del Sud America.

    Lula è un simbolo anche per un continente che da più di un mese è in fiamme. La ribellione e il malessere partono a ridosso del Rio Bravo e si estendono fino alla Patagonia e che accomunano popolazioni indigene e giovani, donne e classi medie, è contro una politica neoliberista che li spinge in basso – nella miseria una parte sempre più consistente, il 10,2 per cento dei 600 milioni di abitanti – sempre più lontani da un élite socioeconomica che si appropria di gran parte della ricchezza.

    Il subcontinente latinoamericano non è l’area più povera del pianeta ma è la regione più colpita dalla crisi globale. Questa è una delle ragioni per cui ad accomunare le rivolte dal Cile alla Bolivia, dall’Argentina al Venezuela, sia proprio un movimento contro la politica che produce diseguaglianza sociale.

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