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La morte (non) è uguale per tutti

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È sbagliato dispiacersi di più per 4 morti a Boston piuttosto che per 80 in Siria?

Lo stesso giorno dell’attacco terroristico a Boston, una serie di bombe ha ucciso più di 30 persone in Iraq. Il venerdì successivo, la notte in cui Dzhokar Tsarnaev è stato arrestato a Watertown ripreso dalle telecamere di tutte le televisioni nazionali, un terremoto in Cina ha ucciso circa 200 persone, ferendone oltre 11 mila. Le notizie dicono anche che in Siria un attacco delle forze fedeli a Bashar al-Assad ha tolto la vita ad almeno 85 persone nella periferia di Damasco.

I media non hanno ignorato queste tragedie. Il New York Times ha dedicato alla Siria uno spazio a pagina 4 e il Wall Street Journal ha parlato a pagina 12 dello sforzo che si dovrà fare per la ricostruzione della zona di Sichuan, colpita dal terremoto. Ma a una settimana le bombe di Boston la storia in prima pagina è sempre la stessa. Perché nessuno mette in un angolo per un attimo l’accaduto nella città americana, le tre persone morte, la guardia del Mit uccisa, e punta i riflettori sulle tragedie del mondo?

La disparità di trattamento delle notizie è stata notata da molti cronisti. Owen Jones, dell’Independent scrive: “Dare una gerarchia alle sofferenze umane permette alle ingiustizie di perpetrare senza controllo e distorce la nostra comprensione dei conflitti. Mina il senso universale di umanità. È una forma di pregiudizio. Quindi no – per rispondere ai miei detrattori di Twitter – non credo che gli orrori che accadono ogni giorno rendano meno grave la tragedia di Boston. Tutti noi abbiamo la responsabilità di sfidare il nostro pregiudizio e di lavorare sull’empatia che proviamo verso gli esseri umani che soffrono in posti distanti migliaia di chilometri da noi. Non empatizzare con loro significa tollerare la loro situazione, e così facendo si diventa complici delle loro esistenze dolorose”.

Assed Baig fa un’analisi più pungente, comparando la tragedia della maratona con le vittime uccise dai droni Usa: “Tutte le vittime sanguinano. Tutte le madri sentono il dolore, i pianti sono gli stessi. La differenza sono il linguaggio, il colore della pelle, la nazionalità, la religione e l’accesso alle cure mediche. Le vittime degli attacchi dei droni possono solo sognare una risposta medica efficiente come quella vista a Boston. Pronto soccorso, ambulanze, polizia. La televisione e i giornali hanno reso chiara una cosa: una vita americana vale di più di una mediorientale, pachistana o africana. Le mie preghiere e i miei pensieri sono con tutte le vittime, non solo quelle occidentali”.

C’è una discussione che prosegue da anni, quella sulla presunta “gerarchia delle morti” nei media occidentali. Come ha detto la giornalista Susan Moellers, per i media americani “Un vigile del fuoco morto a Brooklyn vale 5 poliziotti morti inglesi, che sono più importanti di 50 arabi, che contano di più di 500 africani”.

Uno studio degli anni Ottanta ha rivelato i livelli di copertura televisiva da parte dei canali statunitensi su diversi disastri naturali avvenuti nel mondo. Un disastro in Europa occidentale veniva trattato per 9,2 minuti ogni 1.000 morti, uno in America Latina solo per 1,02 minuti, e in Asia per 0,76 minuti. Praticamente, come hanno detto gli autori, “la morte di un italiano equivale a 3 morti rumeni, 9 latino americani, 11 mediorientali e 12 asiatici”. La vicinanza geografica e culturale ha ovviamente un suo peso, ma non spiega tutto.

Secondo lo scrittore Micheal Cohen gli americani sono diventati insensibili alle violenze di tutti i giorni: “Lo stesso giorno della maratona di Boston, 11 americani sono stati uccisi da armi da fuoco, durante la caccia al colpevole altri 38 sono stati uccisi in sparatorie. Uno era un 22enne di Boston. Sono una piccola percentuale dei 3.531 americani uccisi con armi da fuoco nei quattro mesi passati, un totale che supera i morti dell’11 settembre ed è di poco inferiore al numero dei soldati morti durante le operazioni in Iraq”.

I pregiudizi razziali giocano senza dubbio un ruolo importante nel determinare la priorità delle tragedie, anche se nel caso di Boston c’è stata un’attenzione internazionale per la vicenda ancor prima che si conoscesse l’etnia delle vittime e degli attentatori.

Come spesso accade nei media, la questione potrebbe non avere affatto connotati ideologici. Si tratta piuttosto dell’originalità della notizia. Ci focalizziamo maggiormente sulle bombe di Boston piuttosto che sui massacri in Iraq e Siria per la stessa ragione per cui ci concentriamo di più sulle dozzine di persone che muoiono in incidenti aerei piuttosto che nelle migliaia che perdono la vita in incidenti stradali. Si tratta di eventi inaspettati.

Rafia Zakaria discute su Guernica della disparità tra gli attacchi terroristici in America e quelli in Sud Asia: “La morte è sempre inaspettata in America, ancor di più se causata da un atto terroristico. C’è un’intensità, un’attenzione maggiore sugli attacchi all’America perché la rilevanza di un attacco non è necessariamente legata alla grandezza della tragedia o al numero di vittime e feriti, quanto al contrasto tra una società normale e la crudeltà di un evento terroristico. È in America che questo contrasto è più stridente: la normalità statunitense è fatta di una sicurezza quasi perfetta inimmaginabile in molti posti, specialmente quelli in guerra. Per questo un attentato terroristico colpisce nel profondo”.

“Sicurezza quasi perfetta” non descrive esattamente la condizione di vita di molti americani. Ma basandosi sulle proprie esperienze passate gli statunitensi normalmente non si aspettano che una maratona possa trasformarsi in una strage. Quando questa aspettativa viene distrutta, siamo comprensibilmente scioccati e disperati nel cercare di trovare risposte all’accaduto.

È normale che le persone non condividano il dolore di ogni tragedia che accade nel mondo. Tendiamo a empatizzare maggiormente con le vittime in cui ci possiamo riconoscere. Ma quello che dovremmo capire da eventi come la maratona di Boston è che la violenza è sempre tragica, anche quando non viene raccontata in prima pagina.

Articolo di Foreign Policy per The Post Internazionale
Traduzione di Samuele Maffizzoli

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