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Home » Esteri

L’industria americana torna a casa

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Dopo 20 anni di de-industrializzazione, l’energia a basso costo e i soldi facili favoriscono il rientro delle aziende in America

L’industria manifatturiera americana sta tornado a casa. Il fenomeno, conosciuto come on-shoring, sta avvenendo dopo due decenni in cui la grande industria made in Usa aveva deciso di delocalizzare all’estero, dove il costo del lavoro è più basso.

S&D

A dirlo sono una serie di studi pubblicati negli Stati Uniti dal Boston Consulting Group (BCG) e dal Keybridge Research di Washington, che confermano come negli ultimi cinque anni una media di 50mila espatriati all’anno sia tornata a casa per lavorare nei nuovi stabilimenti che vengono aperti dalle maggiori aziende statunitensi, come Google, General Electric o Caterpillar.

Le cifre, sottolineano gli studi di BCG e Keybridge, appaiono ancora modeste di fronte al mercato del lavoro americano ma l’inversione di tendenza deve essere considerata comunque in atto. La crisi che ha colpito l’industria manifatturiera americana – è opportuno ricordare – risale agli anni Ottanta, quando la maggior parte delle industrie si sono spostate all’estero (grazie anche alle liberalizzazioni messe in atto dal Presidente Ronald Reagan, le cosiddette Reaganomics) provocando la perdita di 5 milioni di posti di lavoro.

Le Reaganomics, inoltre, tesero a favorire gli investimenti nel settore terziario e finanziario più che su quello industriale e contribuirono al crollo d’interi settori, come quello dell’auto, esemplificato nel fallimento della città di Detroit.

Ora però che l’inversione di tendenza è in atto – mettono in risalto le analisi di BCG e Keybridge – sono soprattutto le produzioni legate all’alta tecnologia a tornare in patria. Google ha scelto il Texas per assemblare il suo primo smartphone completamente “Made in Usa”, il Moto X, mentre il gruppo cinese dell’informatica Lenovo ha inaugurato lo scorso anno un impianto in North Carolina per produrre pc e tablet.

Non solo, perché nel settembre dello scorso anno anche la taiwanese Foxconn, nota per assemblare tra gli altri i prodotti Samsung e Apple, ha rivelato che nei suoi piani c’è l’apertura di uno stabilimento negli Stati Uniti. Un annuncio che conferma il cambio di rotta in atto che coinvolge, oltre all’alta tecnologia, anche diversi settori, come l’automotive.

La Mercedes, ad esempio, ha completato nel 2013 la costruzione di un impianto a Tuscaloosa County, in Alabama, dove costruirà parte della nuova classe C. In questo caso è stato fondamentale l’apporto degli enti locali: lo Stato federale dell’Alabama ha concesso alla casa automobilistica tedesca cinque anni di esenzione fiscale e si è impegnato nella fondazione di un’università di ingegneri e tecnici.

Oltre alle iniziative di carattere locale, il ritorno della manifattura sul suolo americano, concludono gli studi di BCG e Keybridge, è dovuto anche a una molteplicità di fattori strutturali. Primo tra tutti il costo dell’energia, che negli ultimi anni è calato drasticamente grazie alla rivoluzione dello shale gas.

Grazie ai giacimenti scoperti nel midwest e negli stati del sud con questa nuova tecnica estrattiva, il prezzo dell’energia è crollato anche di tre volte e ha permesso alle aziende americane di controbilanciare il vantaggio competitivo delle concorrenti cinesi, basato soprattutto sul basso costo del lavoro.

Inoltre, come emerge dallo studio “Energy2020” pubblicato dal gruppo bancario Citigroup, lo sviluppo dello shale gas potrà avere conseguenze di natura globale, poiché contribuirà a rendere già nel 2020 gli Stati Uniti indipendenti dal punto di vista energetico. Una vera rivoluzione che, conclude Citigroup, condurrebbe a cambiamenti di ordine economico e geopolitico di portata planetaria, visto che annullerebbe sia la dipendenza di Washington dai paesi dell’Opec, sia il legame tra Europa (che sarebbe l’acquirente privilegiato del gas americano) e la Russia.

Al di là del futuro dello shale gas all’economia mondiale, per adesso un altro fattore strutturale che favorisce il ritorno della manifattura in America è la facilità con cui le aziende riescono ad accedere ai prestiti. Negli Stati Uniti il sistema del credito alle imprese è, come si dice in gergo, meno banco-centrico rispetto ad altre parti del mondo.

Per questo un’azienda può finanziarsi attraverso strumenti diversi – il mercato dei bond, i fondi d’investimento o il mercato azionario – e garantirsi un afflusso di capitale sempre costante. L’ultimo aspetto strutturale messo in evidenza dalle analisi dei due istituti di ricerca è il rinnovato ruolo della politica nelle scelte industriali degli Stati Uniti.

Il Presidente Barack Obama è da sempre fautore di una nuova industrializzazione americana e di una crescita economica che recuperi la produzione di beni reali a scapito dei servizi. L’inversione di tendenza dell’industria americana ha aiutato in maniera consistente la ripresa dell’economia, cresciuta nel 2013 del 3 per cento. Un dato importante, specialmente se messo a confronto con quello dell’Unione Europea, dove le proposte a favore dell’industria si sono perse tra gli slogan elettorali.

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