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Home » Esteri

Kosovo, 15 anni dopo la guerra

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Il Kosovo possiede un grande patrimonio, non riconosciuto, che al contempo è il vero grande problema della nazione: la diversità

In Kosovo la Golf G60 rossa è l’auto nazionale, la si vede ovunque: è come la Mercedes bianca in nord Africa, o il Tuk Tuk nel sudest asiatico.

Poche sono le case portate a termine, il colore più ricorrente è l’anonimo arancione dei mattoni a vista che macchiano il paesaggio. I luoghi non si differenziano l’uno dall’altro e il paese si annulla tra il cemento e l’asfalto. Rari sono gli angoli che si salvano da squallore e degrado.

Non sarebbe però onesto non cercare una giustificazione. Il Kosovo è un paese giovane (la dichiarazione d’indipendenza unilaterale risale solo al 2008) e il suo aspetto geo-politico attuale è propriamente quello di una provincia dell’ex Jugoslavia. La guerra ha poi fatto il resto: le case e i palazzi sono ancora crivellati e molte sono le abitazioni mai ricostruite.

Le repressioni di Milosevic sono un ricordo recente. Gli albanesi del Kosovo non dimenticano le fosse comuni, gli stupri alle donne e la pulizia etnica, così come sono ancora vive le immagini delle chiese ortodosse danneggiate e in alcuni casi distrutte dalle rappresaglie albanesi nel 2004.

Il paese possiede un grande patrimonio non riconosciuto e anzi visto come il vero grande problema della nazione: la diversità. La bandiera del Kosovo è infatti decorata con sei stelle, ognuna delle quali indica un’etnia presente sul territorio: albanese, serba, bosniaca, turca, gorani e RAE. Difficilmente qualche abitante di questo paese ne riconoscerebbe il valore, impegnato invece a scaricare sull’etnia opposta le responsabilità e le colpe di una guerra che ha fatto migliaia di morti e un milione di profughi. L’odio serpeggia ancora nell’animo delle persone e la tensione è chiaramente percettibile.

A quindici anni dall’inizio della missione KFOR-NATO (Kosovo Force), il Kosovo ha indubbiamente fatto passi in avanti e oggi la situazione è senz’altro più stabile, malgrado continui a presentarsi come un paese spaccato. Basta dare un’occhiata alla cartina a macchia di leopardo e provare a contare le enclavi serbe in territorio kosovaro-albanese, dove la bandiera di Belgrado sventola ancora sui palazzi istituzionali delle città-stato.

Un paese sovrano che ospita municipalità semi indipendenti che parlano un’altra lingua e dove i medicinali che riforniscono le farmacie provengono da un altro paese provoca stupore, ma da queste parti è la normalità. È infatti la stessa Serbia che sostiene le enclavi in territorio kosovaro. Quelle più grandi godono di alti livelli di indipendenza e fino a poco tempo fa erano la sede delle così dette “strutture parallele”, ovvero luoghi istituzionali che servivano gli abitanti serbi del Kosovo.

Oggi, il vero simbolo delle divisioni è rappresentato da Mitrovica, una città di 71.000 abitanti collocata nel nord del paese. Qui l’odio inter-etnico si manifesta fisicamente: la città è divisa da un ponte che prende il nome dalla battaglia vinta da Napoleone e che portò al discioglimento del Sacro Romano Impero, Austerliz. Il ponte è sorvegliato costantemente dalla Kosovo Police e dai Carabinieri, impegnati a mantenere bassa la tensione tra i due quartieri della città.

A nord del fiume Ibar ci si trova catapultati in un altro paese. Da queste parti l’identità non si mette in discussione, il Kosovo è “un’invenzione dell’occidente”. Tutto è serbo: le targhe delle macchine, la moneta, la lingua e la pubblica amministrazione. Eppure siamo in Kosovo. La Kosovo Police recluta personale serbo per controllare la parte occidentale della città e albanese per quella a sud del fiume Ibar.

“Difficilmente attraversiamo il ponte. Ognuno svolge il proprio lavoro nel quartiere di appartenenza etnica”, rispondono due poliziotti in servizio sul ponte. Gli eventi in Crimea hanno riacceso la speranza dei serbi di Mitrovica, affascinati dall’idea di un possibile ritorno al passato. La situazione è identica nel resto del paese a nord del fiume Ibar. Nel Kosovo del nord la comunità serba rappresenta il 95 per cento della popolazione. L’area coincide con le municipalità di Leposavic, Zvecan e Zubin Potok e Belgrado ha da poco riconosciuto ufficialmente il confine.

La Serbia, oggi alle prese con i negoziati per l’adesione all’Unione Europea, è stata costretta ad avviare una serie di politiche per promuovere la stabilizzazione dell’area. Nei recenti incontri, voluti dall’alto rappresentate per gli affari esteri Cathrine Ashton, si sono trovati accordi che riguardano la circolazione di mezzi e persone tra i due paesi e il pagamento delle tasse al governo kosovaro per i prodotti importati dalla Serbia. Tuttavia, la strada appare in salita e Belgrado continua a trattare gli abitanti serbi del Kosovo come propri cittadini versando mensilmente circa 131 euro a famiglia. Una somma che in molti si sognano da queste parti e che difficilmente i serbi ammettono di ricevere.

Il Kosovo è attualmente impegnato a trattare le condizioni con Ivica Dačić, il primo ministro della Serbia, per il riconoscimento del proprio status e dovrà presto trovare una soluzione alla siccità che sta affliggendo il paese. A lanciare l’allarme è la Regional Water Company Prishtina, una delle sette compagnia a gestire il rifornimento d’acqua del paese. “Le riserve di acqua basteranno per altri quattro mesi, dopo di che c’è il rischio che si scateni una vera e propria catastrofe”, conferma Ejup Hashani, direttore del distretto di Prishtina.

I vertici della società sono legati a doppio filo con il mondo della politica e i manifesti dell’UCK all’entrata non lasciano margini di discussione: il Kosovo è un paese guidato da ex membri dell’organizzazione militare rimasta attiva dal 1981 al 1999 e lo stesso Primo Ministro Hashim Thaci è stato uno dei nomi più illustri legati all’Esercito di Liberazione del Kosovo.

Non è ancora chiaro per quanto tempo sarà necessaria la presenza multinazionale in Kosovo, ma i numeri parlano chiaro: dal 1999 (anno di inizio della missione KFOR) a oggi, il numero dei militari presenti è passato da 50.000 a circa 5.000. Le parole del Generale Salvatore Farina, comandante della missione, fanno pensare a un prossimo definitivo ritiro. Rimane certamente molto da fare e l’odio inter-etnico continua a essere il grande problema del Kosovo. Sono ancora molte le abitazioni date alle fiamme dall’etnia opposta e i siti religiosi continuano a essere sorvegliati costantemente per impedire il ripetersi degli attacchi del 2004. Restano comunque molti altri problemi da affrontare: la corruzione e il traffico d’armi stanno piegando un paese che cerca quotidianamente di tornare alla normalità.

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