Quando Benjamin Netanyahu annunciò l’invasione terrestre di Gaza alla fine dell’ottobre 2023 parlò di una «seconda guerra di indipendenza» per Israele. Quasi due anni dopo, accettando alla Casa bianca il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump volto ad affidare la Striscia a un comitato straniero in cambio della fine dello spargimento di sangue, ammise: «Abbiamo fatto molto (…) ma non abbiamo ancora finito». Già perché lo spiraglio di tregua aperto dall’iniziativa Usa accolta da Hamas non assicura la pace, anzi. D’altronde, osservò lo storico israeliano Tom Segev, come il fondatore dello Stato ebraico Ben-Gurion e altri storici leader del Paese, l’attuale premier «non crede che il conflitto possa essere risolto», al massimo gestito. Ma non è certo il solo.
Il fattore N
Prima del 7 ottobre, secondo un sondaggio condotto dall’Israel Democracy Institute a trent’anni dagli Accordi di Oslo, solo un terzo degli ebrei israeliani intervistati riteneva il negoziato la mossa giusta. Due anni dopo gli attentati di Hamas e della Jihad Islamica, un’altra rilevazione dello stesso istituto mostrava come per quasi tre quarti dell’opinione pubblica ebraica in Israele il popolo palestinese non abbia diritto a un proprio Stato. È una questione centrale per il futuro di un Paese che in meno di 80 anni ha combattuto più di una decina di guerre con i propri vicini, vincendole tutte senza mai ottenere la pace, ma forse anche la meno divisiva per un’opinione pubblica sempre più polarizzata. Anche a causa del suo primo ministro.
D’altra parte nei quasi 17 (degli ultimi 30) anni in cui ha governato, Netanyahu ha promosso una sorta di battaglia culturale contro qualunque avversario alla sinistra del suo Likud, con conseguenze irreversibili per il clima politico in Israele. Grazie al sostegno di un’eterogenea coalizione di conservatori laici, rappresentanti dei coloni, nazionalisti religiosi e formazioni ultra-ortodosse, il premier più longevo della storia dello Stato ebraico ha favorito il successo di organi di stampa apertamente di destra, guadagnandosi varie accuse di corruzione, e tentato di riformare la magistratura per ridurre il potere della Corte Suprema, provocando una spaccatura mai vista nel Paese. Inoltre, dopo aver basato tutta la propria carriera sulla sicurezza, si è ritrovato al governo durante il peggior attentato nella storia di Israele, senza mostrare alcun rimorso né ammettere responsabilità personali e insistendo per restare al potere al contrario di predecessori come Golda Meir e Menachem Begin che si dimisero dopo i fallimenti della guerra dello Yom Kippur e del primo conflitto in Libano, scatenando ulteriori frizioni.
Le proteste infatti non sono mai finite: dopo cinque elezioni in tre anni tra il 2019 e il 2022, Netanyahu vinse le legislative del novembre di quell’anno ma dall’inizio del successivo fino al 6 ottobre 2023, centinaia di migliaia di manifestanti scesero in piazza almeno due volte a settimana contro la sua riforma giudiziaria, bloccando le strade e minacciando addirittura di non prestare più il servizio militare. Poi, solo quattro mesi dopo l’invasione della Striscia, le proteste di massa sono riprese, stavolta a favore di un accordo per la liberazione degli ostaggi. Il Paese quindi non ha mai smesso di dividersi.
“Tribù” contrapposte
Il politologo e storico statunitense Gil Troy, che si definisce un “pensatore sionista”, le ha descritte a TPI come «due tribù». «Si sono scontrate sulla riforma giudiziaria», ci ha ricordato, ma «hanno più o meno messo da parte le loro divergenze per salvare Israele dopo il 7 ottobre». Il futuro però promette nuovi scontri anche perché, come ci ha spiegato Troy, «la guerra ha prodotto pochi eroi unificanti: continueranno così le battaglie politiche in corso e gli scontri tribali, tra sinistra e destra, tra religiosi e laici, e tra ultra-ortodossi e la maggioranza che combatte (nell’esercito, ndr)». Finora però resiste un equilibrio precario tra le parti. «Israele avrebbe dovuto essere (anche secondo la risoluzione Onu del 29 novembre 1947) uno Stato ebraico-democratico», ha osservato a TPI l’architetto degli Accordi di Oslo del 1993 ed ex ministro israeliano Yossi Beilin. «Negli ultimi anni, la società israeliana ha dovuto affrontare sfide difficili per quanto riguarda il suo carattere democratico ed è riuscita a respingerne la maggior parte grazie alla sua determinazione a non diventare un’imitazione dell’Ungheria e di Paesi simili. Questo è il più ampio denominatore comune della società israeliana».
Un sondaggio condotto nell’aprile 2024 dall’istituto Migdam aveva infatti rilevato come il 70% degli israeliani ritenga il Paese diviso «non più tra destra e sinistra, ma tra persone con posizioni centriste ed estremiste», tanto che, secondo gli intervistati, «il prossimo governo dovrebbe essere un esecutivo unitario tra destra e sinistra, religiosi e laici, in cui tutti mettano da parte l’ideologia e si concentrino sul rafforzamento della sicurezza». Un tema che, secondo l’ultima rilevazione di Gallup, resta tuttora in cima ai pensieri del 71% della popolazione. Una paura giustificata dal trauma del 7 ottobre, che ha infranto il tabù dell’inviolabilità del territorio di Israele, e dalle piogge di missili da Libano, Yemen e Iran, che alimenta però il sistema di apartheid dei palestinesi. Con conseguenze politiche e identitarie.
Rivoluzione demografica?
Per capire il futuro di questa contrapposizione conviene quindi dare uno sguardo alle previsioni relative alla composizione della società. Secondo le proiezioni dell’Ufficio Centrale di Statistica israeliano (Cbs), in base agli attuali tassi di fertilità, entro il 2059 la popolazione ultra-ortodossa potrebbe rappresentare la metà dei cittadini, spostando gli equilibri interni, tanto che il governo ha dovuto abrogare l’esenzione di questa comunità dal servizio militare obbligatorio.
Una prospettiva confermata anche dai flussi migratori. Secondo l’ultima rilevazione del Cbs in merito ai dati relativi all’aliyah, l’immigrazione ebraica in Israele, solo 11.314 persone si sono trasferite nel Paese nei primi sette mesi del 2025, segnando un calo di circa il 42% rispetto allo stesso periodo del 2024 (quando in tutto furono 32.800) e di quasi il 60% in meno rispetto ai primi otto mesi del 2023 (quando in totale furono 46.033). Soltanto l’anno scorso invece, ben 82.700 israeliani sono emigrati all’estero. Non solo: secondo uno studio preparato quest’anno dal Centro di ricerca e informazione della Knesset, dei circa 200mila nuovi immigrati arrivati in Israele tra il 2019 e il 2023 quasi il 15% aveva già lasciato il Paese l’anno scorso. Per lo più si tratta di giovani adulti laici e istruiti, nel 10% dei casi di medici che lavoravano già all’estero. Insomma una deriva piuttosto chiara.
«Entrambi gli schieramenti hanno un disperato bisogno di leader che siano meno demagogici, meno polarizzanti, meno settoriali e più statisti», ci ha detto Troy. «Ma Israele è molto più forte di quanto la sua politica e i titoli dei giornali suggeriscano: ha un carattere nazionale, una resilienza quasi miracolosa, che riflette dimensioni identitarie più profonde che nessun politico può rovinare».
Identità e occupazione
Una di queste è certamente la narrativa sui palestinesi, in uno Stato che non ha mai abbandonato la propria dimensione coloniale. Sebbene sia Omer Bartov, uno dei principali esperti dell’Olocausto e veterano della guerra dello Yom Kippur, che l’associazione israeliana B’Tselem abbiano denunciato il genocidio perpetrato da Tel Aviv a Gaza, come ha osservato lo storico Ilan Pappé nel suo ultimo libro “La fine di Israele” (Fazi, 2025), il denominatore comune tra i due fronti che si giocano l’anima dello Stato ebraico, liberale e laico da una parte e religioso con tratti messianici dall’altra, è l’appoggio a un sistema che nega ai palestinesi i propri diritti civili e umani. Un sondaggio condotto a due anni dal 7 ottobre dall’Israel Democracy Institute registrava ancora la contrarietà di un terzo degli ebrei israeliani a porre fine alla guerra a Gaza, mentre soltanto due su dieci degli intervistati favorevoli alla pace indicavano la fine delle sofferenze dei palestinesi come motivazione valida per terminare le ostilità. Malgrado almeno 67mila morti, 169mila feriti, quasi due milioni di sfollati e il 78% della Striscia distrutta, oltre alle migliaia di vittime dei raid in Libano, Yemen, Siria e Iran.
Al contrario, dal 7 ottobre, secondo l’ong PeaceNow, sono spuntati 121 nuovi avamposti illegali e sono state costruite oltre 114 chilometri di strade in Cisgiordania, dove ormai vivono più di mezzo milione di coloni, e decine di villaggi palestinesi sono stati evacuati. Inoltre, sebbene l’opinione pubblica condanni le violenze nei Territori occupati, i vari governi hanno mostrato scarsa volontà di punirle: secondo l’ong locale Yesh Din, il 94% delle migliaia di casi di violenza compiuti tra il 2005 e il 2024 da civili israeliani contro i palestinesi si sono conclusi senza una condanna. Come dire che l’impunità per i violenti è praticamente assicurata, così come l’appoggio dello Stato all’estensione dell’occupazione. Dall’inizio della guerra a Gaza, il governo ha approvato la realizzazione di una cinquantina di nuovi insediamenti ufficiali e acquisito al demanio quasi 24 chilometri quadrati di terreni palestinesi. Il consenso dei partiti estremisti non promette nulla di buono in questo senso: alle elezioni municipali del 27 febbraio 2024, le prime tenute in Israele dal 7 ottobre in cui 7 su 9,3 milioni di israeliani erano chiamati a votare in 197 comuni e 45 consigli regionali, i partiti ultra-ortodossi e di estrema destra alleati del premier hanno infatti guadagnato consensi, mentre il gradimento di Netanyahu, secondo l’ultima rilevazione di Gallup, resta stabile al 40%.
Consenso internazionale
Ma l’eredità della guerra a Gaza costringerà Tel Aviv a far fronte anche al progressivo isolamento nell’opinione pubblica internazionale. «Israele si è trovato in una situazione in cui è passato rapidamente dall’essere vittima del terrore follemente crudele di Hamas all’essere criticato da molti in tutto il mondo per la sua dura risposta», ha ammesso a TPI l’ex ministro Yossi Beilin.
I numeri d’altra parte gli danno ragione: secondo un sondaggio condotto questa primavera dal Pew Research Center in 24 Paesi del mondo, Italia compresa, in media oltre il 60% degli intervistati mostrava un’opinione negativa di Israele, con le sole eccezioni di India, Nigeria, Kenya e Argentina e picchi superiori al 70% in Europa. Tel Aviv fa fatica a recuperare consensi persino negli Usa di Trump, il suo principale sponsor. Secondo i risultati di un altro sondaggio condotto a fine settembre dal Quinnipiac University Poll, solo il 47% degli americani ritiene che il sostegno a Israele sia nell’interesse nazionale degli Stati Uniti, in calo rispetto al 69% registrato nel dicembre 2023, mentre appena uno su cinque ha un’opinione favorevole di Netanyahu. «Non ho dubbi che la guerra a Gaza avrebbe potuto finire molto prima. Questo governo non tornerà al potere dopo le elezioni del 27 ottobre 2026, sia perché per molti anni ha preferito Hamas all’Autorità nazionale palestinese (Anp) e ha consentito il trasferimento di fondi alla Striscia di Gaza, che sono stati utilizzati, almeno in parte, per attività anti-israeliane, sia a causa della sua condotta dopo il terribile massacro del 7 ottobre 2023», preconizza Beilin. «Un nuovo governo determinerà un cambiamento radicale nella posizione di Israele nel mondo se annuncerà la sua disponibilità a consentire all’Autorità nazionale palestinese (Anp) di controllare Gaza e se tornerà ai negoziati per un accordo permanente con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp)», è la speranza dell’ex segretario di gabinetto di Yitzhak Rabin. D’altra parte il sentiment nazionale sembra tutt’altro che pessimista.
La maggior parte dell’opinione pubblica ebraica in Israele, secondo un altro sondaggio condotto dall’Israel Democracy Institute, ritiene che la situazione della sicurezza sia migliore oggi rispetto a prima del 7 ottobre 2023, malgrado consideri peggiorata la posizione internazionale di Tel Aviv. «È chiaro che hanno perso amici, persone care, ecc. Ma Israele è molto più sicuro oggi – da Hamas, Hezbollah, dall’Iran e dal suo anello di fuoco – di quanto non lo fosse il 7 ottobre», osserva lo storico sionista Troy. «E la maggior parte degli israeliani è straordinariamente ottimista sul fatto che il periodo postbellico porterà a un boom economico, ad alcuni successi diplomatici e a una migliore sicurezza».
“Superpotenza” regionale
Un ottimismo fondato sullo strapotere militare dimostrato da Tel Aviv negli ultimi due anni, anche grazie all’appoggio incondizionato degli Usa. «Israele è emerso come superpotenza militare del Medio Oriente», ha commentato a TPI l’ambasciatore Alessandro Minuto-Rizzo, ex segretario generale ad interim della Nato dal 2001 al 2007. «Hezbollah è stato ridotto al silenzio, il regime di Damasco amico dell’Iran è scomparso e Israele ha eliminato in Siria qualsiasi potenziale minaccia: lo stesso sta succedendo in Yemen. Per la prima volta nella storia, Israele ha agito con tutte le sue forze direttamente sull’Iran», ha proseguito Minuto-Rizzo. «In 12 giorni le strutture militari iraniane e quelle dedicate all’atomica sono state seriamente compromesse. Indipendentemente dal giudizio politico, la struttura militare di Hamas è stata praticamente smantellata». Il tutto senza grandi scossoni nella regione, anzi. «Nel mondo arabo non vi sono state reazioni significative, nessun Paese firmatario dei cosiddetti “Accordi di Abramo” li ha denunciati», ci ha ricordato il diplomatico. «Questa posizione di superiorità militare non è in discussione e resterà un dato permanente, grazie anche al supporto americano. Naturalmente però questo incoraggia una politica di espansione su Gaza e la Cisgiordania».
Nella speranza di Netanyahu e dei suoi alleati infatti, queste vittorie e il consenso quasi unanime dei Paesi vicini al piano Usa per Gaza dovranno tradursi in una radicale trasformazione dello scenario regionale. In fondo, Egitto e Giordania hanno da anni un accordo di pace con Israele. I patti per la normalizzazione delle relazioni conclusi durante il primo mandato Trump con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan potrebbero presto includere il più potente Stato arabo sunnita, l’Arabia Saudita. La sconfitta militare e il (tentativo di) disarmo di Hezbollah sposteranno gli equilibri in Libano e l’apertura del nuovo leader siriano dal passato jihadista, Ahmed al-Sharaa, a Stati Uniti ed Europa può far ben sperare Tel Aviv. Ma questo sogno potrebbe presto scontrarsi con la realtà visto che, dopo il ridimensionamento dell’Iran e dei suoi alleati regionali, non è affatto detto che i Paesi vicini, Turchia in primis, siano disposti a sopportare l’egemonia del “cane pazzo” israeliano. Tanto che, dopo le scuse di Netanyahu per il raid contro Hamas a Doha, il Qatar si è fatto promettere dagli Usa una sorta di articolo 5 in stile Nato, mentre l’Arabia Saudita si è messa formalmente sotto l’ombrello nucleare del Pakistan, dopo averne finanziato il programma atomico.
Palestina negata
Ad ogni modo, in futuro, Israele dovrà fronteggiare le conseguenze dell’occupazione della Cisgiordania e del costo morale, economico e di sangue dell’invasione di Gaza, il cui affidamento a un comitato protetto da forze straniere armate senza una soluzione per i palestinesi rischia di tramutarsi solo in un rinvio della resa dei conti, così come la tenuta del regime di Teheran e la questione nucleare tuttora aperta. Non a caso, il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di una ventina di Paesi avvenuto dal 7 ottobre 2023, compresi importanti alleati come Canada, Australia, Regno Unito e Francia, e l’imposizione di sanzioni europee contro esponenti del governo israeliano sono stati vissuti con arrabbiata rassegnazione a Tel Aviv. Il principale dividendo delle guerra infatti appare ancora alla portata di Israele: la normalizzazione dei rapporti con Riad. Ma, come più volte ribadito dal principe ereditario Mohammed bin Salman, questo non può prescindere da una soluzione alla questione palestinese. Anche ingiusta, aggiungiamo.
Una prospettiva piuttosto lontana. «“Due popoli e due Stati” non è ancora una soluzione per oggi e la Palestina è destinata a rimanere a lungo una costruzione intellettual-geografica intrisa di storia e di risentimento, che passa dalla Bibbia al Deicidio, da Herzl a Balfour e al King David, sino alle chiavi della casa perduta al collo dei profughi», ha commentato a TPI l’ex ambasciatore italiano in Algeria, India e all’Ocse a Parigi, Antonio Armellini. «La stagione dei sionisti illuminati alla Ben-Gurion e dell’Israele dei kibbutz laici è finita, mentre i nuovi arrivati sono di tutt’altra pasta. È il momento di superare la logica delle armi e della sopraffazione e di tentare, ma sul serio, di dare spazio alla politica (a quella estera, vera e non del cortile di casa) per contenere un Armageddon annunciato: se per ventura Kairos dovesse assisterci, anche di prevenirlo». Senza dimenticare che, spesso, in quest’area del mondo e non solo, la soluzione di oggi può trasformarsi nella polveriera di domani.