Così l’Unione europea finanzia l’apparato militare di Israele
Droni, università, armamenti: milioni di fondi europei finiscono a soggetti legati al settore difesa dello Stato ebraico. Una rete che solleva interrogativi sulla coerenza e sulla credibilità internazionale dell’Ue
Molti ricorderanno il video virale ripreso da un drone israeliano l’ottobre scorso, dove si vedono gli ultimi, drammatici istanti di vita dell’ex capo militare di Hamas, Yahya Sinwar, accovacciato su una poltrona tra le rovine di Gaza mentre, in un ultimo gesto di resistenza, prova a scacciare l’oggetto volante con un bastone. Pochi minuti più tardi, dopo aver ridotto in macerie quel che restava dell’edificio dove si nascondeva, l’esercito israeliano ne ha annunciato la morte. Il drone apparteneva a Xtend, una start-up israeliana che nel 2020 aveva ricevuto 50mila euro dal programma europeo Horizon. Il progetto doveva servire a sviluppare tecnologie immersive per applicazioni civili. Ma oggi Xtend si è trasformata in Xtend Defense e produce droni militari utilizzati da Israele nei raid su Gaza.
Il caso è solo uno dei tanti emersi in una recente inchiesta del quotidiano belga L’Echo e del suo partner fiammingo De Tijd. Secondo i dati raccolti, dal 2021 al 2027 l’Ue verserà 1,1 miliardi di euro a soggetti israeliani coinvolti in 921 progetti di ricerca. I fondi provengono in gran parte da Horizon Europe, il programma di finanziamento comunitario per la ricerca scientifica e tecnologica. Sebbene Israele non sia uno Stato membro dell’Ue, può partecipare a pieno titolo ai programmi di Horizon grazie a un accordo di associazione siglato nel 1995. Ufficialmente, Horizon finanzia solo progetti civili, ma le linee guida del programma ammettono le cosiddette tecnologie “dual-use”, utilizzabili cioè sia per scopi civili che militari. E proprio in questa zona grigia si colloca una parte rilevante delle collaborazioni europee con Israele. La commissaria europea per la Ricerca, Ekaterina Zaharieva, sostiene che «non un solo euro ha finanziato progetti di rilevanza militare». Ma la realtà è più complessa.
La lista dei beneficiari
L’inchiesta de L’Echo mette infatti in luce alcuni casi che risultano difficili da difendere. Tra i beneficiari dei fondi Ue ci sono diversi atenei israeliani, spesso in stretta collaborazione con le forze armate. L’Università di Tel Aviv, che ha ricevuto 230 milioni di euro, ospita l’Institute for National Security Studies (Inss), centro ideatore della controversa “Dahiya Doctrine” sulla risposta militare sproporzionata. L’ateneo inoltre offre programmi su misura per i soldati e borse di studio riservate ai militari. L’Università Ebraica di Gerusalemme, finanziata con 189 milioni di euro, ospita una base militare nel proprio campus e la sua sede principale si trova nei Territori palestinesi occupati. Alla Technion University, destinataria di 33 milioni di euro, le ricerche civili e militari sono spesso indistinguibili, come ammesso anche da Isaac Ben-Israel, presidente della Israel Space Agency: «In un Paese piccolo come il nostro, una tecnologia sviluppata per uso civile verrà inevitabilmente impiegata anche in ambito militare», a dimostrazione di come il “dual use” sia una caratteristica costante della tecnologia di Israele.
Ma i fondi europei sono arrivati anche a soggetti direttamente coinvolti nella produzione bellica israeliana. Tra questi, la Israel Aerospace Industries (IAI), partecipante a otto progetti per un totale di 2,8 milioni di euro, e la Rafael Advanced Defense Systems, che ha ricevuto 500mila euro in progetti sulla sicurezza delle infrastrutture sottomarine.
Anche Elbit Systems, principale azienda bellica privata israeliana, ha ricevuto fondi da Horizon 2020. Tra i leader globali nella produzione di droni da combattimento e tecnologie di puntamento, Elbit figura nella lista dell’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani per il suo coinvolgimento negli insediamenti illegali nei Territori occupati. Malgrado ciò, ha partecipato a progetti europei come Flysec ed Eurostars, presentati come civili ma con applicazioni militari.
Il caso italiano
L’Italia è un partner strategico di Elbit Systems. Con il progetto “Rotary Wing Mission Training Center”, Roma ha siglato un accordo da 239,79 milioni di euro (poi aggiornato a quasi un quarto di miliardo) per la realizzazione di un centro di addestramento avanzato per piloti di elicotteri militari. Solo nel 2024, il governo Meloni ha aggiunto altri 53 milioni al contratto originario, destinati all’integrazione dei simulatori Elbit e al rafforzamento della sicurezza multilivello. Così, con il silenzio-assenso di governo e opposizione, nell’ultimo anno Israele è diventato il secondo fornitore di tecnologia militare all’Italia, con 42 autorizzazioni per una somma di 155 milioni di euro, pari al 20 per cento del totale. Un salto notevole rispetto al 2,5 per cento del 2023.
I nodi politici e legali
Negli anni, numerose organizzazioni per i diritti umani, insieme a reti della società civile europea e palestinese, hanno denunciato il rischio che i fondi Ue finiscano a soggetti coinvolti in crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale. Le regole dell’Unione vietano esplicitamente di finanziare tecnologie a scopo militare, ma la clausola del “dual use” consente ampi margini di manovra.
Alcuni progetti risultano particolarmente controversi. “UnderSec”, ad esempio, prevede lo sviluppo di sensori per la sicurezza subacquea, ma coinvolge il ministero della Difesa israeliano e l’azienda Rads, fondata da ex vertici dell’antiterrorismo. In un altro progetto sulla criminalità ambientale figura una compagnia guidata da ex membri delle unità speciali dell’esercito.
L’aggiramento delle regole
Un’inchiesta di Investigate Europe e Reporters United ha rivelato che l’azienda greca Intracom Defense — oggi controllata al 94,5 per cento da IAI — ha ottenuto 15 progetti dal Fondo Europeo per la Difesa, anche dopo l’inizio della guerra a Gaza nell’ottobre 2023. Secondo i registri aziendali, IAI detiene il 100 per cento dei diritti di voto della società. In sostanza, una controllata europea di un’azienda statale israeliana coinvolta in operazioni militari riceve fondi dall’Ue per progetti militari, grazie a una clausola che consente la partecipazione di soggetti extracomunitari, se formalmente registrati in Europa.
Il solito ritardo di Bruxelles
Negli ultimi mesi, diversi Stati membri — con l’iniziativa capofila dei Paesi Bassi — hanno chiesto alla Commissione europea una revisione dell’Accordo di associazione con Israele. La richiesta è stata discussa dal Consiglio degli Affari Esteri, che non l’ha approvata. Anche se Svezia, Spagna e Irlanda, insieme a numerosi esperti di diritto internazionale, accusano Israele di gravi violazioni dei diritti umani a Gaza. Il mancato rispetto di questi diritti, secondo le regole dell’Ue, potrebbe costituire una violazione dell’accordo stesso ma finora hanno prevalso le logiche politiche più che il diritto. In gioco però, non c’è solo la trasparenza dei programmi europei ma la credibilità dell’Unione stessa.