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A un anno dalle Europee: Giorgia Meloni deve sciogliere il dilemma tra “Governismo” e “Sovranismo”

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Le elezioni per il Parlamento Ue, le presidenziali Usa e il memorandum sulla nuova Via della Seta con la Cina. Il 2024 sarà cruciale per il Governo e così la premier dovrà scegliere se restare con i suoi partner ideali ma politicamente scomodi come Kaczinsky e Trump o puntare al centro. Per contare di più

Doppio test europeo in vista per il Governo Meloni e i partiti che lo compongono: le elezioni e la partita per il rinnovo dei vertici delle istituzioni di Bruxelles, i giochi Ue s’intrecceranno con quelli Usa e potrebbero esserne reciprocamente influenzati. Fra un anno esatto, i cittadini dell’Unione andranno alle urne per eleggere per la decima volta il loro Parlamento: si voterà, secondo le modalità stabilite da ogni Paese, tra il 6 e il 9 giugno, tra un giovedì e una domenica.

S&D

Ancora una volta, non vi sarà una legge elettorale uniforme nei 27 Stati Ue, nonostante appelli in tal senso dei movimenti europeisti: ciascuno eleggerà i propri deputati europei secondo proprie regole. L’Italia, che dispone di 76 seggi sui 705 totali divisa in cinque collegi elettorali, nel cui ambito i seggi saranno assegnati su base proporzionale.

Cambiare alleanze
Sulla scorta dei risultati usciti dalle ultime politiche e degli attuali sondaggi, la composizione della delegazione italiana nell’Assemblea comunitaria è destinata a subire profonde modifiche. Attualmente, i 76 seggi sono così distribuiti: 29 alla Lega, 19 al Pd, 14 al M5S, 7 a Forza Italia, 6 a Fratelli d’Italia e uno agli autonomisti alto-atesini. È ipotizzabile che le posizioni di Lega e Fratelli d’Italia quasi si rovescino o che, comunque, vi sia un’inversione dei rapporti di forza fra i due gruppi, mentre Pd, M5S e Forza Italia potrebbero anche ottenere risultati sostanzialmente equivalenti agli attuali.

Ma l’attenzione di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini, in questo momento, non si concentra solo sulla competizione tra i loro due movimenti, il cui esito potrebbe pure avere un impatto sugli equilibri di governo e – chissà – magari anche sulla stabilità dell’esecutivo. Meloni e Salvini stanno entrambi sondando le possibilità di contare di più nelle istituzioni comunitarie e, in particolare, nel Parlamento europeo, dove attualmente i loro partiti sono entrambi tagliati fuori dai processi decisionali.

Nonostante l’ondata sovranista delle elezioni 2019, l’Assemblea di Strasburgo è saldamente controllata, infatti, dai gruppi più o meno sinceramente europeisti, che fanno maggioranza: i Popolari del Ppe – per l’Italia, c’è Forza Italia – con 177 seggi; i socialisti e democratici – per l’Italia, il Pd – con 143 seggi; i Verdi con 101 seggi; e i liberali di Renew Europe con 72.

I “grillini”, dopo avere costituito gruppo tecnico nella legislazione precedente con i “brexiteers” di Nigel Farage, sono rimasti fra i non iscritti, che sono 47, con notevoli penalizzazioni organizzative. I leghisti sono nel gruppo Identità e Democrazia con gli euro-scettici xenofobi francesi di Marine Le Pen – 62 seggi –, mentre FdI è nel gruppo dei Conservatori e Riformisti europei con i polacchi di Jaroslaw Kaczinsky – 66 seggi –, la sinistra invece ha 37 seggi e non ci sono italiani.

Collocazioni diverse dei due partiti di destra nostrani nel Parlamento europeo potrebbero loro consentire di mascherare meglio le tendenze sovraniste ed euro-scettiche, scomode da esibire quando bisogna governare e cercare sponde, e rendere più fluidi i rapporti con gli altri partiti europei più influenti, che restano improntati a cautela e diffidenza, al di là degli abbracci solidali davanti a emergenze come la tragedia dell’alluvione in Emilia-Romagna.

Ma cambiare alleanze, trovare una nuova collocazione e acquisire influenza non è semplice e non è neppure scontato, tenuto anche conto delle regole sulla composizione dei gruppi nell’Assemblea di Strasburgo. I leghisti, ad esempio, guardano al Ppe, dove, del resto, c’è un amico di Giorgia Meloni (più che di Matteo Salvini) come il premier ungherese Viktor Orbán, il teorico della democrazia autoritaria e illiberale; ma un partito italiano nel Ppe c’è già, Forza Italia.

Sfide comunitarie
La prossima legislatura del Parlamento europeo coinciderà con quella della Commissione europea, che sarà rinnovata dopo le elezioni europee, tra l’estate e l’autunno, e che si insedierà a novembre per il quinquennio 2024-29. Sarà un periodo potenzialmente foriero di grosse novità nel processo d’integrazione europea: è già nato, ad esempio, per iniziativa tedesca e con l’adesione di nove Paesi, fra cui l’Italia, un “Gruppo di amici” per superare il voto all’unanimità in politica estera e dare, finalmente, all’Unione una dimensione politica, oltre che monetaria, economica, energetica, ambientale.

Molto ovviamente dipenderà dall’esito, o dall’andamento, se dovesse ancora protrarsi, del conflitto in Ucraina: il Governo Meloni ha finora affidato la sua credibilità euro-atlantica essenzialmente all’adesione senza distinguo alle posizioni della Nato e dell’Ue sulla guerra. Su molti altri fronti europei, il confronto fra Italia e partner è spesso un contrasto: basti citare l’immigrazione, le licenze dei balneari, l’auto pulita; il Meccanismo europeo di Stabilità, il famoso Mes, cui Meloni oppone un no senza appello («Finché sarò al governo, l’Italia non vi accederà»); le difficoltà sul Pnrr, dove ci si consola dei ritardi perché “mal comune mezzo gaudio”, nel senso che anche Romania e Slovacchia – sic! – vivono i nostri patemi. E c’è alle viste il negoziato sulla riforma del Patto di Stabilità, molto delicato e per condurre in porto il quale in modo per l’Italia positivo ci vorranno sponde a Parigi e Berlino, non a Varsavia e Budapest.

Nel rinnovo delle cariche di punta delle istituzioni europee, l’Italia di Meloni non pare avere molto da dire, almeno per ora e sulla carta. La conferma di Ursula von der Leyen, 64 anni, tedesca, è probabile, non certa; quella del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, 57 anni, belga, è possibile, ma incerta. Quello di Michel poteva essere un posto tagliato su misura per Mario Draghi, ma è difficile che l’attuale maggioranza candidi l’ex premier ed ex presidente della Bce.

Alla Commissione europea non resterà Paolo Gentiloni, perché il nuovo Governo vorrà mandare qualcuno di sua fiducia – si parla del ministro per gli Affari europei, per le politiche di coesione e per il Pnrr Raffale Fitto, che è già stato parlamentare europeo. L’avvicendamento, però, si farà probabilmente a perdere: Gentiloni gestisce gli affari economici dell’Unione; chi gli succederà avrà un portafoglio meno pesante, anche perché avrà un “cursus honorum” meno sostanzioso – alla Commissione, i Paesi mandano spesso ex premier o ex ministri degli Esteri o dell’Economia.

A meno che Meloni non intenda spendere sul tavolo europeo un suo vice – non quello più vocale, ma quello più quieto – Antonio Tajani, che ha un curriculum europeo di prim’ordine, è stato commissario, deputato e presidente del Parlamento europeo. Ma è di Forza Italia, il vaso di coccio dell’attuale maggioranza.

Gli scenari esterni
Il rinnovo delle istituzioni europee andrà di pari passo con la campagna elettorale negli Stati Uniti. Bruxelles punta sul rinnovo del ticket Biden – Ursula von der Leyen. Una vittoria repubblicana – Donald Trump o Ron DeSantis cambia poco – potrebbe invece mutare i dati del rapporto Ue-Usa.

La prospettiva d’un ritorno di Trump alla Casa Bianca crea nervosismi a Bruxelles, specie tedeschi. L’ipotesi DeSantis non è molto più tranquillizzante. Alcune loro prese di posizione – scrive Politico – lasciano temere «conseguenze potenzialmente sismiche» per l’Unione europea: «Anche soltanto un raffreddamento del sostegno degli Usa all’Ucraina e nuove pressioni sui Paesi europei perché spendano di più per la difesa, creerebbero tensioni fra i 27».

Il rischio è che l’Ue s’illuda che Biden stia al suo posto e si crogioli nella convinzione che i rapporti tra Ue e Usa resteranno rosei come sono ora. Nei loro discorsi, i collaboratori di Biden citano spesso l’Ue e Ursula von der Leyen e sottolineano l’allineamento che esiste sull’Ucraina e sulla necessità di ridurre i rischi con la Cina. C’è pure la volontà di trasformare lo US Inflation Reduction Act «da una fonte di frizione (per il suo potenziale contenuto protezionisticopo, ndr) in una fonte reciproca di forza e di affidabilità».

E qui si inserisce la partita a scacchi di von der Leyen con il presidente cinese Xi Jinping. L’Ue, scrive sempre Politico, «cerca un nuovo equilibrio con la Cina», che «determinerà la nostra prosperità economica e la nostra sicurezza»: una ricerca in cui la scelta dell’Italia di rinnovare, o meno, i patti con Pechino avrà un peso. Verso la Cina, l’Ue ha un atteggiamento generalmente più aperto degli americani, ma Pechino controlla già molti porti europei ed esercita un’influenza a volte condizionante.

Il rinnovo del ticket Biden – Ursula von der Leyen è negli auspici di Washington e di Bruxelles. Ma l’ex ministra della Difesa tedesca non ha solo amici: i suoi rapporti con Michel non sono idilliaci; e la coalizione al potere in Germania – di cui il suo partito, la Cdu, non fa parte – è pervasa da pulsioni pro-Cina; e la Francia vuole tenere a distanza gli Stati Uniti. Essere troppo amica di Biden e troppo poco di Xi potrebbe non giovarle.

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