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    “Sulla Brexit adesso Johnson gioca col fuoco e sottovaluta i rischi del No Deal”

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi

    L’ultima proposta del premier britannico rischia di far fallire i negoziati per l’accordo finale sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. TPI ha intervistato Nicoletta Pirozzi, ricercatrice dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) per far luce sugli ultimi sviluppi del romanzo Brexit

    Di Andrea Lanzetta
    Pubblicato il 10 Set. 2020 alle 18:57

    La Brexit non smette di regalare nuove sorprese: le ultime mosse del primo ministro britannico Boris Johnson sembrano mettere in discussione la possibilità di arrivare a una soluzione vantaggiosa per tutti, aumentando i rischi di un “No Deal” e tentando di affibbiare all’Unione europea la responsabilità di un’eventuale mancata intesa o di un accordo meno conveniente per Londra di quanto si aspettassero i brexiter più intransigenti, giocando col fuoco delle tensioni separatiste interne e delle conseguenze economiche di una “Hard Brexit”, senza davvero poter contare, se non a parole, su importanti appoggi internazionali. Per sbrogliare quest’intricata matassa, TPI ha chiesto alla dottoressa Nicoletta Pirozzi dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) di fare luce sull’evolversi della situazione.

    A meno di due mesi dal 31 ottobre, che rappresenta la scadenza massima per arrivare a un accordo, la questione Brexit, in ballo da oltre quattro anni, non sembra vicina a una conclusione. Proprio oggi, 10 settembre, terminano i tre giorni dell’ottavo ciclo di colloqui sulle future relazioni tra Unione europea e Regno Unito, i cui negoziatori si sono incontrati a Londra per discutere il futuro partenariato bilaterale euro-britannico, ma una vera e propria “bomba” politica è scoppiata sui negoziati.

    Il 9 settembre, il governo britannico guidato dal premier Boris Johnson ha infatti presentato a Westminster un nuovo progetto di legge, l’Internal Market Bill, con cui Londra potrà derogare a parte degli impegni presi con il primo accordo, in vigore dal 31 gennaio. In base all’intesa che ha dato il via al periodo transitorio, cominciato il primo febbraio e che si concluderà entro fine anno, l’Irlanda del Nord rimarrebbe parte del territorio doganale britannico, pur attenendosi alle norme comunitarie su una serie di questioni che vanno dagli standard di sicurezza delle merci ai sussidi statali all’industria. La nuova proposta invece, secondo Londra, dovrebbe tutelare le aziende nord-irlandesi in mancanza di un accordo di lungo periodo con Bruxelles.

    L’iniziativa, che ha provocato le dimissioni del capo dell’ufficio legale del governo britannico, Jonathan Jones, ed è stata avversata persino dall’ex primo ministro conservatore Theresa May, ha già messo in allarme l’Unione, che teme da sempre un ritorno alle frontiere fisiche sul suolo d’Irlanda, un’eventualità da evitare a tutti i costi per impedire un rinfocolare delle tensioni mai davvero sopite sull’isola. Nonostante le forti critiche in patria e all’estero, in molti considerano la mossa di Johnson uno stratagemma per raggiungere un accordo più conveniente per il Regno Unito, mentre altri ne sottolineano le implicazioni sulla politica interna britannica, in uno scenario che vede il premier tentare di calmare gli animi dei brexiter più intransigenti.

    Che cosa sta succedendo di nuovo a Londra sul fronte Brexit?
    “Siamo di fronte a una storia che sembra senza fine: gli ultimi tre giorni di colloqui avrebbero dovuto rappresentare i passi finali del negoziato in vista di un accordo conclusivo e invece la vicenda nasconde sempre nuovi colpi di scena, per fattori sia interni al Regno Unito, prettamente legati alla Brexit, che a livello globale, come l’epidemia di Coronavirus”.

    Il governo del premier Johnson ha presentato in corsa una nuova proposta che potrebbe rimettere in discussione gli accordi già in vigore: come cambia ora lo scenario?
    “La nuova iniziativa sul mercato interno del governo di Londra rappresenta un passo indietro su alcuni temi fondamentali e in parte smentisce una serie di elementi chiave dell’accordo di recesso raggiunto lo scorso anno, aumentando l’incertezza su una possibile intesa finale vantaggiosa per tutte le parti coinvolte. Va detto però che i negoziati sulla Brexit si profilano da sempre incerti, con l’Unione europea che sin dall’inizio teme la strategia dell’attuale primo ministro britannico, sospettato di voler arrivare in realtà a una ‘Hard Brexit’ e al ‘No Deal’, cioè a un’uscita senza accordo”.

    Qual è la finalità e la convenienza di mettere in discussione un negoziato durato tanto a lungo e in dirittura d’arrivo?
    “A parole Londra intende semplicemente tutelare la tenuta interna del Regno Unito e proteggere la propria unione doganale, eppure dal punto di vista europeo la nuova proposta di Johnson si profila molto pericolosa per due motivi. Il primo è che discute un punto di convergenza fondamentale raggiunto negli scorsi mesi sull’Irlanda del Nord, ossia l’accettazione dei controlli doganali e di conformità commerciale dei prodotti diretti sull’isola dalla Gran Bretagna. Il secondo riguarda invece il ruolo del governo britannico nei sussidi all’economia non previsti dalla normativa comunitaria sugli aiuti di Stato. Un’interpretazione possibile è che toccare tematiche così delicate per il negoziato sia funzionale a un’esigenza interna del premier britannico che intende venire incontro ai brexiter più intransigenti del suo stesso partito e non solo, a costo però di minare la credibilità di Londra nei colloqui”.

    Parlando di problemi interni britannici, il nodo resta sempre la “questione irlandese”, come è visto tutto questo a Belfast e a Dublino e che effetti avrà sulle tensioni mai davvero sopite in Irlanda del Nord e su altre pulsioni separatiste nel Paese?
    “Il pericolo di un rinfocolarsi delle tensioni in Irlanda è stato sempre presente nella mente e sul tavolo dei negoziatori, sin dall’inizio dei colloqui, direi sin dal 2016. Non è nemmeno l’unico caso, come l’Irlanda del Nord anche la Scozia ospita storicamente movimenti indipendentisti che vogliono separarsi da Londra e allo stesso modo la maggioranza della popolazione votò contro la Brexit quattro anni fa. È un punto molto delicato quello della tenuta del Paese, che il governo britannico tenta di risolvere a modo proprio, promettendo e garantendo a queste regioni maggiori concessioni e aiuti, giocando però allo stesso tempo col fuoco di una possibile uscita senza accordo. La situazione, soprattutto in Irlanda, ma anche in Scozia, potrebbe farsi difficile soprattutto in caso di ‘No Deal’ e di ritorno delle frontiere con il resto d’Europa”.

    A Bruxelles non sembrano averla presa molto bene, che aria tira da questa parte della Manica?
    “La proposta, i tempi e soprattutto i suoi contenuti hanno ovviamente scatenato una forte irritazione da parte dell’Unione europea, i cui massimi rappresentanti come il capo negoziatore Michel Barnier, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione, Ursula von Der Leyen, hanno tutti ribadito la necessità di rispettare i patti e denunciato in caso contrario la violazione del diritto internazionale. Al di là delle dichiarazioni politiche a cui finora si sono limitate le istituzioni comunitarie e i loro rappresentanti, se la situazione dovesse precipitare, il Regno Unito rischia anche una serie di ritorsioni, come ad esempio la denuncia degli accordi con Londra per la violazione delle intese precedentemente raggiunte, aprendo uno scenario pericoloso, soprattutto per la Gran Bretagna”.

    A volte sembra che l’Unione sia più interessata a raggiungere un accordo di quanto non sia Londra, che negli ultimi anni ci ha abituato ad un altalenarsi delle posizioni sul negoziato con l’alternarsi dei diversi governi.
    “L’atteggiamento di Londra, in particolare dell’attuale governo, è forse figlio più di una strategia negoziale che di una mancanza di interesse per i colloqui: una tecnica che però non ha portato a molto, sollevando invece alla lunga un problema di fiducia reciproca, che potrebbe compromettere l’intesa finale, un’eventualità molto pericolosa, soprattutto per il Regno Unito. Sin dall’inizio invece Bruxelles ha messo sul tavolo una serie di problemi, delineando alcune linee rosse da non oltrepassare ed è riuscita a mantenere una posizione ferma su certi punti, come la circolazione delle merci per esempio, anche grazie all’atteggiamento dei vari Paesi membri”.

    A oltre 4 anni dal referendum sulla Brexit la questione è tutt’altro che conclusa ma i governi dell’Unione hanno finora dato prova di unità, respingendo le tentazioni britanniche a concludere accordi separati: abbiamo davvero scongiurato il rischio di un’emulazione della scelta britannica?
    “La prima cosa a cui tutti abbiamo pensato la mattina successiva al referendum del 2016 era chi altro avrebbe lasciato l’Unione. Dopo oltre quattro anni non solo nessun Paese membro ha scelto di seguire la strada di Londra ma persino i movimenti populisti che anche da noi promuovono l’abbandono della comunità europea non sono andati mai fino in fondo, al di là di vaghe dichiarazioni. L’esempio di quanto stia costando al Regno Unito quella decisione è sotto gli occhi di tutti tanto che, nonostante il consenso elettorale raccolto dai partiti anti-europeisti, tuttora questi movimenti non si sbilanciano sull’uscita dall’Unione europea. Direi che le difficoltà del negoziato e gli effetti economici e politici sulla Gran Bretagna hanno di fatto frenato eventuali emulatori, che si interrogano anche sulla capacità dei propri Paesi di resistere a una tempesta così forte. Il Regno Unito resta infatti un Paese ricco e forte sullo scenario internazionale e questo rende ancora più cauti in materia i movimenti anti-europeisti”.

    Siamo davanti all’ipotesi “No Deal”, cosa comporterebbe questo concretamente, in particolare per l’Italia?
    “Un eventuale mancato accordo avrebbe di certo conseguenze pesanti per l’Unione europea ma lo scenario sarebbe ancora peggiore per Londra e forse il premier britannico sottovaluta questo aspetto. Di fronte a una ‘Hard Brexit’ l’Italia è relativamente meno esposta a livello commerciale, rispetto ad esempio alla Germania e ad altri Paesi membri, ma ne sarebbe comunque danneggiata. In caso di ‘No Deal’, l’impatto potrebbe essere pesante soprattutto sul nostro settore terziario e sulla libera circolazione delle persone. Le garanzie offerte ai cittadini comunitari residenti nel Regno Unito, tra cui molti italiani, verrebbero infatti messe in discussione”.

    La strategia di Boris Johnson è stata spesso criticata in patria ma a un certo punto sembrava aver trovato una sponda dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti “da che parte stanno” e come influenzeranno i negoziati tra Londra e Bruxelles le presidenziali americane?
    “Al di là delle dichiarazioni di facciata i rapporti tra Stati Uniti e Regno Unito non sono rosei. I due governi divergono su vari importanti dossier internazionali: dalla tassazione dei colossi tecnologici statunitensi, all’affaire Huawei, su cui Londra ha dapprima mostrato una certa apertura a Pechino per poi rimangiarsi le rassicurazioni sotto la pressione degli americani, per non parlare poi dell’Iran e dell’accordo sul nucleare disatteso da Washington e delle ulteriori sanzioni contro Teheran che non trovano consensi a Downing Street. Sulla questione Brexit, la Casa bianca non appoggia concretamente Londra contro Bruxelles, anzi. Washington non si pone come mediatore e il governo britannico sta incontrando diversi problemi anche nel negoziare un accordo commerciale con gli Stati Uniti, che molti in Gran Bretagna auspicavano potesse far uscire Londra dall’isolamento. Non credo inoltre che, qualunque sia il risultato, le elezioni presidenziali americane cambieranno molto la situazione, soprattutto perché il Regno Unito sembra essere alla ricerca di un profilo internazionale autonomo, adottando una visione forse un po’ ingenua dei rapporti globali.

    Una delle maggiori critiche alla leadership britannica riguarda proprio la percezione del ruolo e del peso del Regno Unito nel mondo, Londra ha cercato di ritagliarsi una parte da protagonista nel Commonwealth provando a sostituirlo all’Unione ma senza fare i conti con colossi come India, Australia e Sudafrica: il Paese non accetta il clima da “fine dell’impero” e spera di giocare ancora alla pari con le superpotenze mondiali?
    “Il Regno Unito ha tentato da subito una strategia da potenza globale, che nei fatti è fallita prima ancora di essere messa in campo. Forse è proprio questa visione, figlia di una percezione ancorata al passato e poco aderente alla realtà, la vera debolezza di Londra nel negoziato con l’Unione europea, un attore che quantomeno per dimensioni può invece ritagliarsi un ruolo nell’assetto attualmente in costruzione a livello internazionale. L’Ue ha finora dato prova di unità, magari per interesse dei singoli Paesi più che per slancio ideale, ma sta superando insieme la tempesta. L’evolversi dei negoziati dimostra anche una certa salute del progetto europeo che tutto sommato, anche se con lentezza, si sta adeguando ai cambiamenti repentini come quelli scatenati dalla pandemia di Covid-19”.

    Come andrà a finire il romanzo della Brexit?
    “Vedremo nei prossimi mesi come si concluderanno i negoziati ma il sospetto da parte europea che il premier britannico punti a una ‘Hard Brexit’ non è del tutto infondato. La strategia di Londra, rivelatasi fallimentare almeno finora, mira a trovare punti di convergenza separati con i singoli Paesi europei in un contesto ‘No Deal’, giocando col fuoco delle tensioni interne e delle conseguenze economiche dell’uscita dall’Unione, per ora mascherate da effetti della crisi Covid-19, senza davvero poter contare, se non a parole, sull’alleato americano e sopravvalutando il peso del Regno Unito nel mondo”.

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