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Le Filippine si riavvicinano alla Cina e si allontanano dagli Stati Uniti

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L'analisi di Filippo Fasulo sul cambiamento nella strategia geopolitica di Manila dovuto in larga parte alle scelte radicali del controverso presidente Rodrigo Duterte

La visita del controverso presidente filippino Rodrigo Duterte a Pechino conferma come l’Asia orientale sia davvero una delle aree del mondo geopoliticamente più dinamiche.

S&D

Durante l’incontro con il presidente cinese Xi Jinping, Duterte ha affermato che “gli Stati Uniti hanno perso”, “le Filippine lasciano gli Stati Uniti” e “si schierano accanto di Cina e Russia contro il mondo”.

Queste parole sembrano presentare un passaggio strategico dell’arcipelago filippino dall’area di influenza americana a quella cinese.

Sebbene Duterte sia noto per le dichiarazioni sopra le righe – su tutte, gli irripetibili insulti al papa e al presidente Obama che già hanno causato un incidente diplomatico al vertice Asean di settembre in Laos –, la situazione sembra inserirsi in un quadro complesso e sempre più problematico per le esigenze di politica estera americana.

Se dopo la decisione della corte arbitrale dell’Aia dello scorso luglio, che contestava alla Cina occupazioni indebite nel Mar cinese meridionale, le Filippine apparivano come il principale alleato americano nella sua opera di contenimento “mascherato” dell’influenza regionale cinese, la visita e le dichiarazioni del leader filippino sembrano ribaltare completamente lo scenario finora conosciuto.

L’amministrazione Obama, infatti, ha concentrato la propria strategia internazionale – tra l’altro con un contributo diretto dell’allora segretario di Stato e attuale favorita per la presidenza Hillary Clinton – attorno al concetto di ‘pivot to Asia‘.

Tale progetto prevedeva una riorganizzazione della distribuzione delle risorse militari da riposizionare maggiormente in Asia orientale a discapito del Medio Oriente.

L’obiettivo, seppur nascosto dalla retorica politica, era quello di “gestire” l’attesa crescita cinese che presto avrebbe affiancato al proprio sviluppo economico una maggiore proiezione estera.

La reazione cinese era stata senza dubbio preoccupata e rigida. I timori di un accerchiamento si sono così manifestati con l’acuirsi di dispute territoriali marittime, prima sul fronte giapponese – gli scogli disabitati e contesi fin dagli anni Quaranta chiamati Senkaku/Diaoyu – e successivamente sul fronte meridionale.

La progressiva costruzione da parte cinese di isole artificiali e installazioni militari ha allarmato tutti i paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale, dal Vietnam alle Filippine, passando per l’Indonesia, timorosi di perdere l’accesso a un’area ricca di risorse energetiche e di possibilità di pesca.

Gli Stati Uniti si sono trovati così a dover rincorrere l’attivismo cinese nella regione promettendo agli alleati di sostenerli militarmente ed economicamente.

I timori in termini di sicurezza dei paesi regionali sono il miglior alleato statunitense in un contesto in cui tali stati si trovano a metà del guado fra una maggiore affinità politica ed economica con la Cina comunista e la necessità di ricorrere all’ombrello protettivo costituito dalle forze armate americane.

La più grande vittoria dell’amministrazione Obama, infatti, era stata la firma – in attesa però di ratifica da parte del Congresso – del Trans Pacific Partnership (Tpp), un accordo di libero scambio che esclude la Cina e che dovrebbe rafforzare i rapporti economici fra gli Stati Uniti e la sponda sud-occidentale del Pacifico. Infatti, la partita geopolitica nasconde anche uno scontro fra Washington e Pechino per un maggior accesso ai mercati regionali.

Le Filippine sono al centro di questo grande gioco regionale fra Stati Uniti e Cina per fattori storici, strategici e politici.

Già ex colonia e alleato militare americano, negli scorsi anni le Filippine si sono dimostrate il maggior oppositore alle pretese cinesi. L’azione di Manila è risultata in una sconfitta diplomatica per Pechino, l’arbitrato dell’Aia, che ha intaccato la retorica non espansionista cinese.

Tuttavia, queste azioni sono state promosse dalla precedente amministrazione guidata dall’ex presidente Benigno Aquino, non ricandidabile per limite di mandati.

La vittoria di Duterte ha segnato un deciso spartiacque a favore della Cina, grazie a una rinnovata apertura a considerare le istanze di Pechino in un quadro bilaterale.

Le posizioni filo-cinesi del presidente filippino non sono nemmeno troppo sorprendenti se si considera che in campagna elettorale era stato accusato di aver ricevuto fondi da uno sconosciuto imprenditore cinese, di essere supportato dalla nutrita minoranza cinese locale e di aver avuto incontri con diplomatici mandati da Pechino mentre invece aveva rifiutato quelli con gli inviati americani a Manila, oltre al fatto di aver messo al centro del proprio programma economico progetti infrastrutturali legati a finanziamenti cinesi.

La visita di Duterte in Cina mette a rischio le strategie economiche e di sicurezza di Washington, mettendo pressione sul prossimo presidente americano e anticipando quello che rischia di essere il tema ricorrente del prossimo decennio: il confronto tra Stati Uniti e Cina.

Poco prima di partire per Pechino, Duterte aveva già dimostrato di voler prendere le distanze dagli Stati Uniti annunciando, salvo rettifiche successive dello staff, di voler interrompere le esercitazioni militari congiunte che si svolgono ogni anno.

Il peggioramento dei rapporti rischia di mettere in forse anche l’Enhanced Defense Cooperation Agreement (Edca) un accordo che darebbe accesso alla marina militare americana ad alcuni porti strategici dell’arcipelago.

Tra i molti dossier che il prossimo presidente degli Stati Uniti dovrà considerare, uno di fondamentale importanza è quello relativo al Tpp.

Nonostante entrambi i candidati si siano detti contrari, la percezione in Asia è che senza un tale accordo economico ci saranno ben pochi fattori che potranno incoraggiare i paesi del Sudest asiatico a evitare di entrare maggiormente nella sfera d’influenza cinese per restare legati a Washington.

La visita rappresenta così un vistoso campanello d’allarme per gli interessi strategici americani in Asia, un tema che condizionerà sicuramente l’azione politica statunitense almeno per il prossimo decennio.

— L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Manila si avvicina a Pechino e spaventa gli Usa” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore 

*Filippo Fasulo è ricercatore associato ISPI

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