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    I precari del Cnr si mettono in gabbia per protesta: “Se il governo vuole davvero investire in ricerca inizi stabilizzando i nostri contratti di lavoro”

    I ricercatori precari del Cnr in gabbia per protesta durante Non è l'Arena

    La denuncia messa in scena da tre ricercatori durante il programma tv Non è l'Arena

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 9 Dic. 2019 alle 13:28

    Cnr, la protesta dei ricercatori precari: “Il Governo investa nella ricerca”

    Tre ricercatori. Due ragazze e un ragazzo. Due maschere, due camicie, un abito nero. Mascherati perché senza identità, al lutto perché vittime di tutti i tagli che in questi anni si sono sommati ai fondi per la ricerca. Precari, perché parte di quell’esercito di 1.000 persone che lavorano per il Cnr da anni, senza il riconoscimento di ciò che è stato promesso loro sulla carta. Ieri, domenica 8 dicembre, durante il programma tv Non è l’Arena, condotto da Massimo Giletti su La7, questi tre ragazzi hanno scelto di mettersi in gabbia, per protesta, e una di loro, Laura Vilardo, ha letto questo testo. Parole che dovremmo ascoltare tutti, perché da questa ricerca possono dipendere anche le nostre vite.

    Le due persone che vedete nella gabbia sono ricercatori del Cnr da moltissimi anni, come me.

    Io mi chiamo Laura, ho 47 anni, un marito e una figlia di 5 anni. Mi occupo di staminali e con il mio gruppo studiamo le cellule tumorali. Il mio contratto di lavoro scadrà tra meno di un mese e non potrà essere rinnovato. Se non verrò stabilizzata, la ricerca che sto portando avanti si interromperà per sempre.

    La mia e quella dei miei colleghi è una storia che molti italiani non conoscono. È la storia di migliaia di ricercatori precari che lavorano per gli enti pubblici di ricerca. La storia di tantissime persone che, come me, da anni lavorano con contratti precari al limite della dignità.

    Ci siamo vestiti di nero in segno di lutto perché abbiamo capito che la ricerca pubblica sta morendo. Ci siamo messi delle maschere bianche per indicare che siamo tutti uguali, ma invisibili agli occhi dei politici. E siamo scesi in piazza.

    Ci siamo organizzati e abbiamo dato vita al più grande movimento di lavoratori precari della ricerca degli ultimi 30 anni.

    Per formare ogni ricercatore lo Stato spende 250mila euro. Investire tutti questi soldi e poi costringere i ricercatori ad andare all’estero è una politica suicida.

    “Non possiamo ignorare lo stato di salute della ricerca e dei suoi operai” – queste le parole del nostro Presidente del Consiglio. E noi operai siamo qui perché qualcosa non torna. Perché un governo così attento non prevede fondi in legge di bilancio per la ricerca pubblica? Perché un governo così attento vuole avere un’Agenzia Nazionale per la Ricerca che costerà allo Stato 300 milioni all’anno, una gabbia per la ricerca pubblica mentre a noi basterebbe molto meno per essere tutti stabilizzati?

    Si devono erogare più finanziamenti, si deve completare il processo di stabilizzazione dei ricercatori. Non c’è più tempo.

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