Quando c’era la Polis: colloquio col prof. Scandurra
“Nelle città-Stato greche i cittadini discutevano tra loro per cercare di risolvere i problemi. Oggi invece pesa l’ingerenza dei privati. Perché manca la cultura politica”. Colloquio col prof. Enzo Scandurra, ordinario di Urbanistica alla Sapienza
Città sempre più invivibili e riservate ai ricchi. Costruttori disposti a tutto e periferie abbandonate. Sono lontani i tempi in cui lo spazio urbano era veramente pubblico e partecipato. Ne abbiamo parlato con il professor Enzo Scandurra, ordinario di Urbanistica all’Università La Sapienza di Roma.
Professore, le polis erano entità politiche autonome che prevedevano la partecipazione attiva dei cittadini alla vita pubblica. Cosa rimane oggi di questa antica organizzazione?
«Potremmo dire nulla. Quell’esperienza storica ad oggi non c’è più, né sarebbe possibile riprodurla. Quello delle polis, infatti, era un governo che si tramandava di padre in figlio. Ciò che invece è interessante sottolineare è il fatto che si discuteva, si argomentavano le varie posizioni per cercare di risolvere i problemi. Possiamo quindi ritenerlo come il primo esempio di democrazia, pur se con dei limiti, come l’esclusione delle donne e degli schiavi».
La città per definizione è pubblica, ma nella nostra società – a differenza del modello delle polis – il potere decisionale è sempre più centralizzato, soprattutto nelle realtà medio-piccole, che godono di scarsa autonomia.
«Nei sistemi democratici odierni c’è un distacco sempre più netto tra la classe politica e il popolo, come notiamo dall’affluenza bassa alle urne ad ogni tornata elettorale. Questo perché molta gente non si sente adeguatamente rappresentata da chi viene eletto. D’altronde ci accorgiamo come non sempre chi è chiamato ad avere responsabilità politiche agisca nell’esclusivo interesse del bene comune. Certamente il sistema parlamentare resta il migliore esistente, ma nel tempo si è deteriorato, per diversi motivi. Pensiamo ad esempio alla crescente ingerenza dei potenti gruppi economici sulla politica, capaci di influenzare le scelte dei nostri rappresentanti».
La polis non era solo un centro di potere, ma anche di scambio interculturale, pensiamo alla centralità dell’agorà. Questo aspetto secondo lei sopravvive nelle nostre città, o ormai dominano le contrapposizioni sempre più evidenti tra i diversi strati sociali?
«Il sistema delle polis era sicuramente ottimo per quei tempi, ma aveva il forte limite della consanguineità, poiché il potere si tramandava di padre in figlio: oggi sarebbe inconcepibile. Certamente tra gli aspetti che potremmo salvare, e magari recuperare, c’è proprio quella notevole capacità di argomentazione, per cui alla fine prevaleva chi meglio riusciva a convincere gli altri della bontà delle proprie idee. Adesso invece conta quasi esclusivamente il peso numerico dei vari gruppi politici, che riescono così a imporsi».
Veniamo all’attualità. Ha destato molto scalpore l’inchiesta giudiziaria a Milano, che ha causato un vero terremoto nel mondo dell’urbanistica e nella politica locale. Cosa sta succedendo e cosa ci insegna questa vicenda?
«Ci sono due problemi da analizzare. In primis se la città è ancora veramente pubblica oppure no. Pensiamo ad eventi come la sfilata di Dolce&Gabbana a Roma, o l’occupazione di Venezia per celebrare lo sfarzoso matrimonio di Bezos: la città allora perde il suo carattere pubblico, e diventa sempre più privatizzata. A Milano si costruivano interi grattaceli con una semplice Scia, per cui gli oneri di urbanizzazione conseguenti alla richiesta di costruzione non venivano devoluti all’amministrazione, con evidenti perdite economiche per i cittadini».
L’altro tema?
«La seconda questione è che a Milano non c’è una visione politica sul piano urbanistico: è una città che si costruisce a pezzi, con una netta separazione tra urbanistica e architettura. Se ci pensiamo bene, il successo delle città moderne si basa su architetture fantasmagoriche che attraggono turisti, come i tre grattacieli di CityLife a Milano. In definitiva, le città di oggi sono sempre più in competizione tra di loro, per accaparrarsi flussi di denaro, grandi eventi e investimenti, ma questo successo – che è nelle mani di pochi – ha fatto sì che gli abitanti meno abbienti si siano dovuti allontanare dal centro, ingigantendo le diseguaglianze. Milano, quindi, si sarà anche ammodernata, ma al contempo è diventata più esclusiva, con molte persone costrette a scappare perché i prezzi sono diventati insostenibili».
Non sempre è stato così.
«Tornando al paragone iniziale con il passato, c’è stato un tempo in cui le città competevano anche aspramente per la qualità delle loro merci. Ma erano accoglienti: pensiamo per esempio ad un’opera straordinaria, dal punto di vista architettonico e sociale, come lo Spedale degli Innocenti del Brunelleschi per dare rifugio ai neonati che venivano abbandonati».
Il caso di Milano, insomma, dimostra che non si può costruire ovunque e ad ogni costo.
«C’è stata in poco tempo una preoccupante semplificazione dell’urbanistica, perché si sono cancellate leggi storiche come la Bucalossi (legge del 1977 che disciplinava il rilascio dei permessi di costruire e gli oneri di urbanizzazione, ndr) e gli standard urbanistici. Ora invece bisogna costruire dappertutto e in barba alle regole, arrivando a creare delle città-vetrina ad uso esclusivo dei ricchi e dei turisti, come è evidente con il fenomeno dell’overtourism».
I mali di questo “Modello Milano” sono diffusi anche in altre città?
«Il problema di Milano è che coloro che decidevano lo sviluppo della città (archistar, costruttori) erano al tempo stesso gli esecutori del progetto, esautorando completamente l’Amministrazione comunale. Questo fenomeno si sta verificando anche in altre realtà, dove le pressioni di fondi di investimento e immobiliaristi riescono a scavalcare i Comuni».
Qual è la situazione a Roma, alle prese con il Giubileo? I tanti cantieri possono essere un’occasione per far tornare a crescere la Capitale?
«Non si fa altro che prevedere interventi, che però non andranno a beneficio delle fasce più deboli o delle periferie. Penso per esempio al progetto del porto crocieristico di Fiumicino o al nuovo stadio della Roma a Pietralata. Ci sono molte opere del genere che destano perplessità. Anche la realizzazione del termovalorizzatore è secondo me sbagliata, perché dovrebbe stare alla fine del ciclo dei rifiuti anziché essere considerato lo strumento per risolvere il problema. C’è tanta retorica e slogan in queste operazioni, alcune davvero fantasmagoriche, come la Foresta Romana. Ma il punto è che manca una vera cultura politica».
Che intende?
«Come vogliamo che siano le nostre città? Accoglienti, inclusive, o un insieme di opere stravaganti di architettura con cui attirare i turisti? Questo è il vero interrogativo. Mi sembra che la cosiddetta “rigenerazione urbana” sia servita solo per fare delle enormi speculazioni edilizie».
Le metropoli, in definitiva, stanno diventando delle giungle da cui molti vogliono scappare.
«Per tanto tempo la città è stato un luogo di emancipazione, opportunità, incontri. Ora invece sono soprattutto delle vetrine, dove si concentrano interessi finanziari e speculativi. Una famiglia normale non può ambire a vivere a Milano, visti i costi esorbitanti per prendere in affitto o acquistare una casa. E i fondi di investimento privati, con i loro interessi, hanno messo le mani anche sull’housing sociale».
Un altro tema è quello delle periferie, sempre più degradate e abbandonate.
«Di recente ha suscitato molto scalpore la dichiarazione del sindaco di Roma Gualtieri, secondo cui le periferie “fanno schifo”. Negli anni Sessanta chi emigrava, soprattutto dal Sud verso il Nord, andava a vivere ai margini della realtà urbana, sapendo però che prima o poi avrebbe goduto del grande benessere della città. Oggi, invece, le cose sono molto cambiate, e chi vive nelle periferie sa che quella rimarrà la sua condizione».
I piccoli centri possono avere nuova linfa, attirando quelle persone che in città non vogliono o non riescono più a vivere?
«Certamente sì. I paesini sono la vera ricchezza dell’Italia, mentre nel Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne si dice che vanno “accompagnate in un percorso di spopolamento irreversibile”. Dovremmo recuperare, come dice l’antropologo Vito Teti, il concetto di “restanza”. Nella provincia si possono trovare condizioni di vita decisamente migliori rispetto alle grandi città, dominate dal traffico e dal caos, in cui si esce la mattina e non si sa a che ora si rientra la sera. Il futuro, mi sento di dire, non sarà delle metropoli ma di queste realtà più a misura d’uomo».