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Una poesia fuori dai malintesi e senza impalcature. La nuova raccolta di Monia Gaita

Monia Gaita

La poetessa irpina torna con la nuova raccolta Non ho mai finto (La vita felice, 2021)

Di Vincenzo Fiore
Pubblicato il 6 Apr. 2021 alle 12:57

La poesia certamente non migliora le cose, ma fa qualcosa di assai più decisivo: le modifica. Come ogni arte pura non ha ripercussioni sulla storia, né ha scopi pedagogici, ma agisce in altro modo: intervenendo sul proprio cammino interiore. Se il mercato della poesia negli ultimi anni si è saturato nutrendosi di paesaggi di mare, di metafore di tramonti o, peggio ancora, di versi costruiti appositamente per un post di Instagram, è davvero difficile riscoprire quella poesia che, come pensava Gottfried Benn a ridosso degli anni Cinquanta, si nutre dei necessari spazi vuoti per fare risaltare con maggior forza quelli più pieni.

Con una poesia – scriveva il critico tedesco nelle sue considerazioni inattuali – non si vuol mica essere attraenti, piacere, essa deve invece tendere i cervelli e stimolarli, aprirli a forza, irrorarli di sangue e renderli creativi. Non a caso, come appuntava nei suoi Problemi della lirica, si può imparare a fare l’equilibrista, a ballare sulla fune, a fare numeri di acrobazia, a correre sui chiodi, ma dare fascino alla parola con una certa collocazione, o lo si sa fare oppure no, non ci sono vie di mezzo.

Chi sicuramente lo sa fare è Monia Gaita, che di recente ha pubblicato la sua nuova raccolta Non ho mai finto (La vita felice, 2021), che senza abbandonare lo stile lirico e ricercato delle sue prime opere, ora mette su carta versi diretti, taglienti, che puntano dritto sulla forza delle immagini che ne scaturiscono. La storia narrata è quella di corpi che si sono toccati, ma forse non abbastanza, di un amore maturo che nella sua impossibilità di compiersi pienamente ha l’esigenza di riscoprirsi irresponsabile, forse anche un po’ infantile.

Un bacio, o persino un bacio mai dato a un anonimo di cui si conosce il nome, ma destinato a restare tale, riesce a spezzare quella quotidianità di un sesso ormai meccanico che la vita ci ripropone in una sequenza ormai familiare, quella di svestirsi, lavarsi e poi risistemarsi: «Abiterò il santuario dell’uguale. / Nessun campanello d’allarme / legato intorno al collo. / Si abbatteranno le passioni come di salice. / Mi lascerò sorprendere dalle facce note. / Emergerò / da tutto quello che mi aveva divorato».

Come di un episodio di cui già si presagisce la trama, ci sono incontri di cui già si percepisce la mancanza. «Così finisce, / non mi sorprende» scrive l’autrice in una poesia intitolata È tardi, ma più che un’esclamazione da orologio, assomiglia a un rimprovero di puntualità all’esistenza. Si cercano le tracce di ciò che è stato, si immagina quello che poteva essere, ma un’eco nella testa ci ricorda che i morti non tornano, e non si muore soltanto quando si è seppelliti in un bara. Quello è il corpo, la carne invecchiata, lacerata e offesa dalle bugie che Gaita confessa fra le pagine: «Certo, fui brava a descrivere / un arco di finzione / quando spavalda ti dissi ‘Ti prego, / non chiamarmi più. Lasciami andare!’».

Nella terza e ultima sezione del libro A colloquio con i luoghi, la poetessa irpina torna a fare i conti con la memoria collettiva, seguendo alcune linee tracciate già nella sua precedente raccolta Madre terra (Passigli, 2015), dedicando parte dei suoi versi al terremoto del 1980, un tragedia dalla quale non ci si è mai totalmente ripresi, un evento che fa tremare ancora se si è bravi ad ascoltare il rumore che proviene dal silenzio dei paesi fantasma: «Fa male guardare il vuoto indefinito / alle ringhiere, / scioglierlo lentamente sulla lingua / come un bacio. / Il nido dell’infanzia è divorato, / scorge da un gomito del monte una frontiera, / spartisce l’acqua del deluso coi noccioli».

Se l’amore era stato il filo conduttore della silloge sin dalle prime pagine, essa si conclude allo stesso modo, questa volta rivolgendo il sentimento al Sud, terra dei «proletari e degli inermi», dei laureati ricompensati da false speranze, degli esiliati dal lavoro. Insomma, un amore che ferisce, un amore che spesso non restituisce, ma che si alimenta nonostante tutto; in fondo, forse, è meglio così, immaginiamo che condanna per la poesia e per la letteratura se ci fossero soltanto «mutui» amori?

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