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    Coronavirus, il primario di Codogno: “Ore decisive, ecco com’è andata davvero col paziente 1”

    Persone con la mascherina fuori dall'ospedale di Codogno, nel Lodigiano (Credits: ANSA/ MAURIZIO MAULE/ FOTOGRAMMA)

    Stefano Paglia, primario dei pronto soccorso di Codogno e di Lodi, racconta cosa è successo alla fine di febbraio, quando il 38enne Mattia è risultato positivo al test

    Di Anna Ditta
    Pubblicato il 4 Mar. 2020 alle 11:25 Aggiornato il 4 Mar. 2020 alle 14:18

    Coronavirus, il primario di Codogno: “Ore decisive, ecco com’è andata davvero col paziente 1”

    “Stiamo facendo il conto alla rovescia. Monitoriamo minuto per minuto i nuovi contagi nella zona rossa e nelle aree confinanti: ci aspettano altri due giorni con il fiato sospeso per capire se qui la grande ondata dell’epidemia è passata e quando arriverà nel resto della Lombardia”. Sono le parole di Stefano Paglia, 49 anni, primario dei pronto soccorso di Codogno e di Lodi, che sta lottando da giorni contro l’epidemia di Covid-19 e in un’intervista a Repubblica parla di “ore decisive” per capire se “l’ondata dell’epidemia è passata o se l’emergenza è ancora all’inizio”.

    “Come ogni altro medico travolto dall’emergenza, penso solo a chi si ammala”, dice Paglia che dal 20 febbraio non lascia il reparto e che finora non aveva parlato alla stampa. Il medico racconta cosa è successo a Codogno a partire dalla fine di febbraio, quando il 38enne Mattia è risultato positivo al test. “Il cosiddetto ‘paziente uno’ all’inizio aveva i sintomi classici di un’influenza e per due volte ha negato relazioni sospette con la Cina. Non rispondeva alle terapie ed essendo giovane era stato invitato invano a rimanere in ospedale sotto osservazione”, dice. “Si è ripresentato il 19 notte, la polmonite si era aggravata, nessun farmaco funzionava. Nel primo pomeriggio di giovedì 20, dopo il trasferimento dalla medicina alle terapie intensive, si è accesa la lampadina all’anestesista che ha salvato tutti dalla catastrofe”.

    “La mia collega, forzando il protocollo, ha fatto fare il tampone. Prima ancora di avere conferme, personale e reparti sono stati messi in sicurezza”, prosegue il dottor Paglia, che però precisa: “Nell’area il coronavirus, senza poter essere individuato, girava almeno da gennaio. A fine dicembre, anticipando il piano di sovraffollamento invernale, avevo aumentato a 18 i letti dell’osservazione breve intensiva. I medici di base registravano un boom di polmoniti: ci siamo preparati senza aspettare i finanziamenti”.

    “Dopo il primo caso, per tre giorni siamo rimasti senza tamponi. Pur di circoscrivere il focolaio dentro l’attuale zona rossa, sono stati fatti a tappeto”, spiega il primario di Codogno. “I laboratori del Sacco di Milano e del San Matteo di Pavia si sono intasati. Chi lavora negli ospedali, ha dato la precedenza ai pazienti. L’equivoco è confondere la generosità per un errore”. Paglia dice di non essere preoccupato, e invita le persone a non allarmarsi. Il rischio che vede, nel caso in cui l’epidemia si allarghi a Milano, alle grandi città della Lombardia e il resto del Nord Italia, è che l’organizzazione sanitaria finisca sotto forte stress. “Per fortuna chi deve sapere, lo sa”, aggiunge.

    E sull’inchiesta aperta dalla procura lodigiana a proposito dell’operato dei medici dell’ospedale di Codogno commenta: “Nessuna amarezza, la coscienza è a posto. La verità è che a Codogno, grazie a una straordinaria e anonima dottoressa con qualità cliniche di altissimo livello, l’Italia ha scoperto l’epidemia. Ha avuto il tempo per reagire e può tentare di limitarne le conseguenze. L’inchiesta così potrebbe perfino farci scoprire cose interessanti”.

     

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