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    Napoli, infermiera impegnata nella lotta al Covid violentata in un parcheggio dopo il turno: “Per 45 minuti ho creduto di morire”

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 7 Mag. 2020 alle 15:39 Aggiornato il 7 Mag. 2020 alle 15:51

    Infermiera anti-Covid violentata a Napoli

    Domenica di orrore per un’infermiera di Napoli impegnata nella lotta al Coronavirus, violentata da un uomo di origini senegalesi in pieno giorno nel parcheggio della Metropark subito dopo la fine del turno di lavoro. In un’intervista a Repubblica, la donna di 48 anni ha raccontato il calvario che ha subito mentre aspettava l’autobus. “Lavoro in un reparto di Psichiatria dove ci stiamo occupando dei ‘reduci’ del Covid. Escono traumatizzati dalla malattia e noi li seguiamo con affetto e attenzione. Domenica, dopo il lavoro, stavo tornando a casa, ad Avellino, e dopo aver preso la metropolitana ero arrivata alla Metropark in anticipo. L’autobus per Avellino, a causa della riduzione delle corse per l’emergenza Covid, sarebbe partito un’ora dopo. Alle due e mezza del pomeriggio non c’era anima viva, così mi sono seduta su una panchina ad aspettare”, ha raccontato la donna.

    “Un uomo grande e grosso ha scavalcato una recinzione ed è venuto verso di me. Ho subito avuto paura, aveva l’aria minacciosa. Mi ha afferrato un braccio. Io ho subito pensato a una rapina: così, per salvarmi, gli ho dato la borsa. ‘Prendi tutto, ci sono i soldi’, ho detto. La risposta mi ha raggelato. Ha detto: ‘Non voglio i tuoi soldi, quelli ce li ho’. Poi mi ha strattonato e scaraventato per terra. Ho visto il mio cellulare volare via, mi ha strappato il giubbino di dosso”, ha spiegato l’infermiera. “Continuava a ripetere: ‘Fammi fare quello che voglio o ti uccido. Stai ferma e non urlare Non era un uomo, era una bestia. Era il doppio di me e tutto il suo peso era sulla mia schiena. Si arrabbiava, perché avevo i jeans troppo stretti e non riusciva a levarmeli. Quarantacinque minuti in cui ho capito che la mia paura più forte era quella di morire”, ha continuato la donna affranta nel suo racconto.

    “Le telecamere hanno ripreso tutta la violenza, ma nessuno stava guardando quei filmati in diretta, altrimenti sarebbe subito intervenuto. Usano i droni per trovare le persone che vanno sulla spiaggia nonostante l’emergenza Covid. Perché non li usano per prevenire queste e altre aggressioni?”, ha osservato la 48enne, che dopo 45 minuti di violenza in una Napoli deserta, ha deciso di dire al suo aggressore di essere incinta e di non riuscire a respirare. “Gli ho detto che se arrivava qualcuno sarebbe stato arrestato. Ma lui continuava a cercare di strapparmi i jeans. La mia schiena era a pezzi, il collo pieno di lividi. Diceva: ‘Se urli ti uccido’ e poi mi levava la mano dalla bocca nel tentativo di girarmi e mettermi con la schiena a terra. Mi sono aggrappata a un cassonetto dei rifiuti per impedirglielo. Fino a quando non è arrivato l’autobus”.

    L’autista, che ha visto cosa stava succedendo, ha cominciato a urlare mentre, nel frattempo, è arrivato  l’esercito. “Tre militari lo hanno circondato e a quel punto io sono riuscita ad alzarmi e mi sono rifugiata sull’autobus. Poi è arrivata anche la polizia, quattro volanti per bloccare quell’essere immondo. Non mi hanno lasciato più. Mi hanno portato in ospedale, per reazione mi è salita la febbre, tale è stato lo choc. La polizia ha avvertito mio marito. Hanno visto i filmati, alcuni poliziotti non ce l’hanno fatta a guardare fino alla fine per la rabbia e il disgusto”, ha aggiunto la vittima, che dopo l’aggressione non è più riuscita a tornare a lavoro, perché le manca la serenità necessaria ad assistere i pazienti. “Ora mi sembra di non poter trasmettere più, a chi ne ha bisogno, l’interesse per la vita. Anche con un sorriso. Invece posso solo vivere il mio dolore”, ha concluso.

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