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    Coronavirus, dimezzati i ricoveri per infarto. “Necessario lanciare un allarme, il tasso di mortalità è tre volte superiore a quello del Covid-19”: il cardiologo a TPI

    Di Giulia Angeletti
    Pubblicato il 11 Apr. 2020 alle 13:33 Aggiornato il 11 Apr. 2020 alle 17:18

    In queste settimane di emergenza Coronavirus, in cui tutta l’attenzione è rivolta all’epidemia da Covid-19, ai suoi sviluppi e a tutte le misure per arrestare la corsa dei contagi, i cardiologi italiani hanno lanciato un importante allarme: “I pazienti hanno paura del contagio e non vengono in ospedale”. I ricoveri per infarto infatti, come ha raccontato il Corriere facendo riferimento ad uno studio della Società Italiana di Cardiologia, nell’ultimo mese sono dimezzati, o comunque hanno visto riduzioni con percentuali preoccupanti, che sfiorano anche l’80 per cento in quelle regioni dove c’è stata una concentrazione più alta di contagiati dal virus. Preoccupanti soprattutto a fronte del fatto che in Italia le patologie cardiovascolari, come infarti e ischemie cardiache, sono la prima causa di morte. E in questi giorni le persone, un po’ per paura e un po’ per problematiche legate all’accesso al meccanismo d’urgenza del 118, attualmente subissato di richieste, non si recano al pronto soccorso anche se accusano i tipici sintomi dell’infarto, oppure ci si recano o riescono ad arrivarci molto tardi, quando il quadro diagnostico è ormai grave o maggiormente compromesso. TPI ha parlato di questa situazione – dai dati registrati nei reparti di cardiologia che confermano questo allarme ai rischi, attuali e futuri, dei ritardi nel recarsi in pronto soccorso in caso di sintomatologia sospetta – con il Prof. Francesco Summaria, cardiologo interventista dell’Ospedale San’Eugenio di Roma, il quale ha sottolineato come siano rapidamente variati “i trigger dell’infarto”, cioè le cause scatenanti, come anche “i fattori psicologico-ambientali che inducono il paziente a recarsi in pronto soccorso” e come i medici oggi possano incappare, per via della prioritaria attenzione al Coronavirus, in “missing diagnostici”, cioè in errori di valutazione del quadro clinico complessivo del paziente.

    Professore, conferma un drastico calo dei ricoveri per infarto nelle ultime settimane?

    Sì, si tratta di una problematica ormai nota a livello internazionale e che è correlata con l’emergenza Coronavirus. L’anno scorso, nello stesso periodo, noi avevamo degli accessi in pronto soccorso per sindromi coronariche acute e infarti molto più numerosi rispetto ad oggi. Un dato da sottolineare è che tale riduzione negli accessi al pronto soccorso, ovviamente, è più forte in quelle regioni maggiormente colpite dall’epidemia. La Lombardia, ad esempio, ha visto un crollo di accessi per casi di infarto pari all’80 per cento, mentre in quelle regioni dove ci sono stati meno contagi da Covid-19 la riduzione si è attestata intorno al 40-50 per cento. Le motivazioni, comunque, possono essere molteplici: da una parte c’è la paura del paziente ad accedere nelle aree di pronto soccorso per paura del contagio, ma c’è anche una difficoltà oggettiva legata alla possibilità di accedere al pronto soccorso, dato che il servizio del 118 ha avuto e ha un bel da fare in questi giorni. Anche in Spagna, nell’area metropolitana di Madrid ad esempio, sta succedendo lo stesso. C’è da dire anche che quando il paziente poi arriva in pronto soccorso accusando dolore toracico, le prime valutazioni, più approfondite, sono sulle problematiche polmonari connesse all’infezione da Coronavirus e magari si perde di vista che possa invece trattarsi di una problematica di tipo cardiaco”. (Se mettiamo insieme tutti questi aspetti ci possono spiegare questi numeri che, ovviamente, in tempi “normali” non sarebbero spiegabili. Ricordiamo che oggi le patologie cardiovascolari sono la prima causa di morte in Italia, prima anche di quelle oncologiche.)

    Quindi si tende più facilmente a confondere i sintomi e ad elaborare la diagnosi più tardi?

    Alcuni sintomi possono essere confusi nella fase diagnostica, nel senso che i medici che vanno ad intervenire su un paziente che arriva in pronto soccorso saranno all’inizio maggiormente preoccupati nell’escludere una eventuale infezione da Coronavirus e, come conseguenza, alcuni valori del sangue o legati alla respirazione verranno interpretati in tal senso, quando potrebbero invece poi essere l’espressione di una ischemia cardiaca. Un aspetto, questo, fatto notare anche da un collega di Madrid, che ha sottolineato come dei pazienti arrivati in pronto soccorso con sospetta infezione da Covid-19, in realtà poi presentavano delle ischemie. Quindi c’è anche una difficoltà legata ad un missing diagnostico. Per fare un esempio pratico: un paziente si reca in pronto soccorso con un dolore toracico e si pensa subito che quel dolore sia legato ad una eventuale polmonite da Coronavirus, quando poi, attraverso le analisi, si scopre che si tratta di infarto.

    Questa maledetta infezione, per giunta, quando causa un quadro esteso, determina il rilascio di alcune proteine nel sangue – le troponine – che vengono rilasciate anche in corso di infarto. A quel punto la diagnosi si rende ancora più difficoltosa. Inoltre, più siamo veloci a individuare l’infarto, meno si rende necessario l’utilizzo di strumenti quali i respiratori, che in queste settimane sono particolarmente essenziali per fronteggiare le crisi respiratorie dei pazienti affetti dal virus. Oggi è quanto mai importante la prevenzione.

    In che senso sono variati i trigger dell’infarto, cioè le sue cause scatenanti? Il Coronavirus, in un soggetto cardiopatico, può portare al generarsi di specifiche condizioni?

    Sono stati attivati dei registri per tutti i casi di infarto registrati nell’epoca Covid proprio al fine di capire le correlazioni tra patologie cardiovascolari e questo virus. C’è chi ha ipotizzato che l’infezione da Coronavirus “raffreddi” le condizioni che portano all’infarto. In parte questo è vero, perché le persone, stando in casa, seguono con più attenzione e meticolosità le terapie prescritte da noi cardiologi, sono più attenti ai parametri pressori oppure hanno ridotto il proprio consumo di sigarette perché in casa, chi ha figli in particolare, tende a fumare di meno per non inquinare l’ambiente. Sono comunque dati, questi, oggi solo osservazionali, che meritano di essere inseriti in futuro in studi più approfonditi. Noi del GISE (Società Italiana di Cardiologia Interventistica, ndr), ad esempio, stiamo raccogliendo il materiale trombotico dei pazienti con infarto in questo periodo di epidemia, per verificare se effettivamente il virus possa incidere sulla rottura di placca.

    Cosa significa?

    Quando noi abbiamo una malattia delle coronarie, l’evento che ci porta all’infarto è causato da un’alterazione dei fattori della coagulazione, per cui si formano dei coaguli di sangue a partire da delle placche che stanno nelle coronarie. C’è chi ha ipotizzato che la condizione infettiva possa portare alla protezione della rottura di placca. Anche questo, comunque, rimane un dato speculativo che andrà verificato in seguito con degli studi approfonditi.

    Quali sono, in conclusione, i rischi, non solo attuali ma anche futuri, per un paziente con infarto che arriva tardi in pronto soccorso? E quanto è grave ed estesa questa situazione, o lo sarà successivamente?

    Da parte mia posso dire che nel 50 per cento dei nostri ultimi casi c’è un aumento dei pazienti che si recano in pronto soccorso tardi, sostenendo di accusare i sintomi da almeno 3 giorni e presentando dei quadri di infarto più complicati rispetto a ciò che eravamo abituati a vedere in passato. Quello che ci dobbiamo aspettare nella cosiddetta “fase 2” è che molti pazienti arriveranno in pronto soccorso già con esiti di infarto, cioè con infarto subacuto. Bisogna lanciare un messaggio forte circa la necessità di ricorrere al pronto soccorso qualora il paziente accusi dei sintomi fortemente suggestivi. Al di la del rischio legato all’infezione, noi non dobbiamo dimenticare che se l’infarto miocardico non viene curato ha una mortalità molto alta. Se noi confrontiamo il tasso di mortalità per il Coronavirus con il tasso di mortalità dell’infarto non trattato, quest’ultimo risulta essere tre volte superiore. E’ ovvio che oggi siamo tutti presi psicologicamente da questa emergenza e da un bollettino quotidiano di vittime del Covid-19 “di guerra”, ma se tale bollettino lo rapportiamo alle conseguenze delle patologie cardiovascolari non curate, la situazione diventa ben più grave di quella attuale.

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