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Home » Ambiente

Guarire la Terra è possibile, basta volerlo: la chiusura del buco dell’ozono ne è la prova

Immagine di copertina
Credit: Cassie Matias / Unsplash

Il buco dell’ozono si sta rimarginando e per l’Onu si chiuderà nel 2050. Tutto merito degli accordi di Montreal del 1989. Nessuno venga mai più a dirci che i governi non possono nulla contro la crisi climatica perché questo successo mostra cosa si può e si deve fare per abbandonare i combustibili fossili e ridurre i gas serra, limitando l’aumento delle temperature

Da un’altezza tra i 30 e i 50 chilometri al di sopra della superficie terrestre arriva una notizia che dovrebbe far riflettere sul come sia possibile, se i grandi del pianeta volessero davvero farlo, incidere in positivo sull’emergenza climatica: la fascia di ozono nella stratosfera si sta ricostruendo gradualmente, e secondo l’ultimo report della World Meteorological Organization (Wmo) – l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata nelle rilevazioni meteorologiche – si rimarginerà definitivamente entro il 2040 in tutto il mondo ad eccezione delle regioni polari, dove potrebbe volerci più tempo (le stime guardano al 2045 per l’Artico e al 2066 per l’Antartide).

S&D

Il cosiddetto “buco nell’ozono”, considerato per anni la principale minaccia ambientale per l’umanità, ha risentito della cooperazione dei principali Paesi del mondo: nel 1989, dopo lunghe trattative e diversi studi, fu sottoscritto il Protocollo di Montreal, nel quale si decise di eliminare il 99% delle sostanze chimiche che – reagendo – trasformavano il prezioso gas in ossigeno. Sul banco degli imputati i clorofluorocarburi (Cfc), molto utilizzati in frigoriferi, aerosol e solventi. Il trattato canadese fu una vera e propria svolta nell’approccio alla crisi climatica, perché oltre a preservare lo strato di ozono indispensabile per “filtrare” i raggi ultravioletti del Sole ha anche rallentato il riscaldamento globale, già fuori controllo.

Un prezioso precedente
L’Europa ha infatti affrontato nel 2022 l’anno più caldo di sempre ma, secondo uno studio del 2021 pubblicato sulla rivista Nature, senza il taglio dei Cfc – che rientrano nella categoria dei “gas serra” – le temperature globali avrebbero visto un rialzo di 1°C entro la metà del secolo, peggiorando una situazione di fatto già critica. Il pianeta si è riscaldato di circa 1,2 gradi rispetto ai valori registrati prima della rivoluzione industriale e la comunità scientifica internazionale concorda sul fatto che superare gli 1,5 gradi segnerebbe il punto di non ritorno, aumentando drasticamente il rischio di estrema siccità, incendi, inondazioni e carestie, catastrofi che ridisegnerebbero gli equilibri geopolitici attuali. Il risultato sui Cfc può essere di ispirazione per le future sfide ambientali del pianeta. «L’azione sull’ozono costituisce un precedente nella lotta al cambiamento climatico», ha affermato Petteri Taalas, segretario generale della Wmo. «Il nostro successo nell’eliminare gradualmente le sostanze chimiche che consumano ozono – ha spiegato – ci mostra cosa si può e si deve fare con urgenza per abbandonare i combustibili fossili, ridurre i gas serra e quindi limitare l’aumento della temperatura».

Ma il percorso che ha portato agli attuali risultati incoraggianti non è sempre stato scevro di ostacoli: nel 2018 i responsabili del monitoraggio del Protocollo di Montreal rilevarono un aumento dell’uso di Cfc nella Cina orientale, attraverso l’infiltrazione di investigatori in alcune aree industriali del Paese. Fu accertato che i gas illegali erano stati reintrodotti perché «più economici», anche se questo «non influì sul processo di risanamento dello strato di ozono». La Cina venne comunque sanzionata. Un altro nodo da sciogliere fu la decisione sul come sostituire i clorofluorocarburi: si optò per un altro gruppo di prodotti chimici industriali, gli idrofluorocarburi (Hfc), a loro volta rivelatisi però “gas serra” e banditi da un secondo accordo internazionale raggiunto a Kigali in Ruanda, come emendamento al Protocollo di Montreal.

Dal 2001, con le emissioni di composti alogenati sotto controllo, lo strato di ozono ha iniziato a mostrare segni di guarigione. Le principali variazioni registrate sono derivate principalmente dalla temperatura della stratosfera: un calore maggiore è associato a un buco dell’ozono più piccolo, come accaduto ad esempio nel 2019. Tuttavia, questo fenomeno non può essere legato esclusivamente al cambiamento climatico antropogenico, causato cioè direttamente dall’uomo: i gas serra hanno infatti generalmente un effetto di raffreddamento nella stratosfera, mentre contribuiscono al riscaldamento globale nella troposfera, la parte più bassa dell’atmosfera terrestre, a un’altezza massima di 20 chilometri dal suolo. Questo raffreddamento ha un effetto positivo sul ripristino dell’ozono, ad eccezione delle regioni polari: qui le temperature molto basse possono portare ad un aumento della formazione di nubi stratosferiche, un fenomeno particolarmente affascinante ma che facilita l’impoverimento dell’ozono.

Nuove prospettive

L’ultimo rapporto della Wmo è anche il primo a esaminare il potenziale impatto sullo strato di ozono della geoingegneria solare, un intervento umano in cui particelle riflettenti, come lo zolfo, vengono spruzzate in massa nell’atmosfera per deviare la luce del Sole nel tentativo di ridurre il riscaldamento globale. Si tratta di una pratica controversa, che il governo degli Stati Uniti sta cercando di affinare. Avrebbe il potenziale per abbassare le temperature, «ma potrebbe avere conseguenze indesiderate», si legge all’interno del report stesso, sebbene venga riconosciuto che «molte lacune nella conoscenza e incertezze impediscono una più solida valutazione in questo momento».

David Fahey, scienziato della National Oceanic & Atmospheric Administration e autore principale del resoconto, ritiene che l’immissione di grandi quantità di zolfo nella stratosfera possa ridurre l’ozono di meno del 10%, una quantità che non causerebbe un “collasso” nello strato gassoso. «Questo tipo di interventi sul clima – ha spiegato – è un argomento delicato perché rappresenta un groviglio di etica e governance, non è soltanto scienza». Fahey è uno degli studiosi che più di tutti considera il Protocollo di Montreal il trattato ambientale di maggior successo nella storia perché «offre incoraggiamento affinché i Paesi del mondo possano riunirsi e decidere un risultato e agire di conseguenza».

Ma è anche il primo ad ammettere che quando si tratta di gas serra come l’anidride carbonica la sfida diventi molto più grande. Quest’ultima, infatti, rimane nell’atmosfera molto più a lungo, e – a differenza dei Cfc prodotti solo da una manciata di aziende – le emissioni provenienti dai combustibili fossili sono molto più diffuse e riguardano quasi tutte le attività umane. Quando nel 1989 in Canada il presidente Usa, Ronald Reagan, e la premier britannica, Margaret Thatcher, (i principali promotori degli accordi, ndr) riuscirono a persuadere il mondo intero a bandire i gas fluorati avevano il pieno appoggio della cittadinanza, che rispose positivamente all’allarme lanciato dalla comunità scientifica facendo ridurre sensibilmente la domanda dei prodotti che contenevano Cfc e rendendone più facile quindi la rimozione.

«Fare in modo oggi che ogni persona sul pianeta smetta di bruciare combustibili fossili è una sfida molto diversa», ammonisce Fahey, ma questo non vuol dire che i governi e le organizzazioni internazionali debbano smettere di cercare di raggiungere l’obiettivo della neutralità carbonica, nella speranza che le “emissioni zero” abbiano sul riscaldamento globale lo stesso effetto che l’abolizione dei Cfc ha avuto sul buco nell’ozono.

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