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The big dilemma: la dipendenza dai social va ben oltre i like, è un’assuefazione dallo schermo

Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il docufilm The Social Dilemma spiega perché il modello di business che si cela dietro i colossi della Silicon Valley è nocivo per due miliardi di utenti. E come gli algoritmi di Facebook e Instagram siano in grado di prevedere i nostri comportamenti in modo sempre più preciso

Di Marta Vigneri
Pubblicato il 28 Set. 2020 alle 17:31 Aggiornato il 28 Set. 2020 alle 19:27

I put a spell on you, cause you’re mine“, “Ti ho fatto un incantesimo, perché sei mio”, le parole del brano del 1956 di Screamin’ Jay Hawkins, meglio conosciuto nella versione interpretata dalla cantante americana Nina Simone, risuonano in sottofondo mentre il protagonista del docufilm “The Social Dilemma” riprende in mano il suo smart phone dopo giorni di astinenza imposti dalla madre. Si chiama Ben, ha 16 anni, viene da una famiglia della middle class americana, ha due sorelle e gli piace una ragazza, Rebecca. Ma i selfie della sua compagna di classe non sono abbastanza perché il giovane torni a scorrere in modo compulsivo la bacheca, e l’algoritmo di Facebook – che ha imparato a conoscere Ben molto bene – lo sa. Così parte l’incantesimo: il 16enne riceve la notifica che lo aggiorna sullo stato sentimentale della sua ex fidanzata. Anna ha trovato un nuovo boyfriend. E adesso Ben quel telefono non lo molla più.

“Hey, a Ben prima piacevano tutti i contenuti di Anna, interagiva sempre con il suo profilo. Poi ha smesso all’improvviso. È lei che ci serve: Anna e il suo nuovo amico”, dicono i tre alter ego di Ben. Nel documentario scritto e diretto dal regista statunitense Jeff Orlowski l’algoritmo che governa il comportamento dell’utente sui social network assume sembianze umane. Tre uomini vivono posizionati di fronte a enormi macchine con cui manovrano il giovane come fosse una pedina, una sorta di bambola vudù a cui sono in grado di far fare ciò che desiderano. Conoscono i suoi gusti, le sue preferenze, le hanno osservate e studiate nel corso degli anni, e per questo sono sempre più bravi nel predire quello che terrà Ben incollato allo smart phone mentre, nel frattempo, inserzioni pubblicitarie e contenuti che non ha scelto di guardare spunteranno davanti ai suoi occhi come per magia. “Ti ho fatto un incantesimo, perché sei mio”: nel film disponibile su Netflix dal 9 settembre sembra proprio che il cervello di Ben appartenga all’algoritmo di Facebook.

Il regista, già autore dei documentari “Chasing Ice” e “Chasing Coral” – che allertano il pubblico sulle conseguenze dei cambiamenti climatici – si serve degli esperti che hanno progettato le principali funzioni di Google, Twitter o Facebook per spiegare come la crescita esponenziale dei social network e il modello di business che vi si cela dietro sia profondamente nocivo per gli esseri umani. Non solo perché crea dipendenza, ma soprattutto perché rende gli iscritti (almeno due miliardi di persone nel mondo) pedine di un sistema sempre più preciso, in cui i dati che tracciano il comportamento online sono venduti alle aziende affinché queste possano studiare le preferenze degli utenti fino a condizionarle. “Se il servizio è gratis, il prodotto sei tu“, è uno degli assunti del docudrama. “Perché gli inserzionisti pagano per un servizio che gli utenti usano in modo gratuito?”, si chiede in modo retorico Justin Rosestein, ex programmatore di Facebook e fondatore di Asana, un software che aiuta le aziende a organizzare il lavoro online.

“Li pagano perché ci facciano vedere la loro pubblicità. Siamo noi il prodotto, comprano la nostra attenzione”, è la risposta. Niente di nuovo, verrebbe da osservare. Ma in realtà la posta in gioco è più alta e sofisticata, come spiega Jaron Zepel Lanier, informatico americano autore del saggio “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social“. “Il prodotto è il cambiamento graduale del tuo comportamento e della tua percezione. È l’unica cosa che può produrre profitto: cambiare quello che fai, il tuo modo di pensare, la persona che sei“. Posta nei termini degli autori di “The Social Dilemma”, la questione è la seguente: i colossi della Silicon Valley chiedono agli inserzionisti milioni di dollari in cambio di una promessa, che diventa una certezza man mano che i dati aumentano e le previsioni diventano più esatte, quella di modificare il mondo di una piccola percentuale ogni anno nella direzione in cui essi desiderano. “È quello che ogni azienda ha sempre sognato, avere la garanzia che la sua pubblicità avrà successo”, afferma Soshana Zubof, professoressa emerita della Harvard Business School.

Le conseguenze di questo modello di profitto, però, sarebbero molto più nocive di quello che gli stessi sviluppatori interpellati nel documentario avrebbero predetto, e il film tenta di illustrarlo con una certa teatralità. Da un lato, la depressione e l’isolamento, sempre più gravi negli adolescenti della “Generazione Z”, nati dopo il 1996, abituati a maneggiare smartphone sin dalle scuole medie, ma impreparati a essere sottoposti al giudizio costante del prossimo, al “mi piace” o al commento negativo di un proprio contatto, in un’età in cui l’identità deve ancora formarsi. La pressione esercitata dai social network sui più giovani sarebbe così forte, argomenta Jonathan Haidt, psicologo sociale della New York University, che a partire dal 2011 gli atti di autolesionismo in Usa sarebbero aumentati del 62 per cento tra le adolescenti e del 189 per cento nelle pre adolescenti.

Dall’altro lato, cresce la manipolazione dell’opinione pubblica, che sui social troverebbe terreno fertile a suon di teorie del complotto e fake news. Il documentario mostra come i messaggi politici estremi che incitano all’odio e alla violenza circolino più velocemente rispetto ad altri contenuti, attirino l’attenzione di una buona fetta di utenti in modo più immediato, generando profitti maggiori. Motivo per cui i movimenti che chiedono di vietare o limitare questo genere di informazioni – che a partire da quest’estate si sono diffusi negli Stati Uniti a margine delle proteste esplose dopo la morte dell’afroamericano George Floyd – incontrano una certa resistenza da parte dei colossi della tecnologia. Un vero pericolo soprattutto in tempi di elezioni politiche o di pandemia, quando credere alle fake news che contraddicono la scienza significa rimetterci la vita. Così, dopo aver abboccato alla trappola di “Anna” ed essere rimasto incollato allo schermo per giorni nutrendosi di contenuti estremi propinati dall’algoritmo, Ben si ritrova nel bel mezzo di una protesta anti governativa, organizzata da attivisti che sostengono che i politici diffondano menzogne con il solo obiettivo di controllare la popolazione.

Ma è davvero tutta colpa di Facebook? Osservando Ben vagare tra gli attivisti come fosse ancora vittima dell’incantesimo, viene da chiedersi se i dilemmi di cui parla il documentario non siano prima di tutto un prodotto della società, in cui stili di vita comunitari hanno ceduto il passo all’individualismo o al profitto e in cui i cittadini non si sentono rappresentati dai politici che li governano. Come osserva il giornalista americano Casey Newton, i gruppi estremisti animati da teorie del complotto non si organizzano solo sui principali social network, ma su piattaforme indipendenti da algoritmi programmati per generare profitto. È il caso dell’assassino di estrema destra della moschea di Christchurch, in Nuova Zelanda, o del killer della strage dell’Oregon del 2015, che hanno generato proseliti su siti minori come 8chan o 4chan, basati sulla pubblicazione d’immagini e sull’anonimato.

Tali siti sfruttano la capacità di Internet di connettere persone che la pensano allo stesso modo, ma con fini tutti politici che prescindono da obiettivi commerciali. Dunque, se è vero che per rompere l’incantesimo è necessario limitare l’uso dei social network, disattivare le notifiche e non abboccare passivamente a contenuti che non si è scelto di guardare, è anche necessario domandarsi quale sia il vero “dilemma”. Se gli algoritmi di Facebook o un modello di società di cui i social sono solo un amplificatore e uno specchio.

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