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    La politologa Urbinati a TPI: “Taglio dei parlamentari? Così il M5S favorisce la casta”

    Nadia Urbinati, professoressa di Scienze politiche alla Columbia University di New York

    La professoressa, docente di scienze politiche alla Columbia University di New York: "Se diminuisce il numero dei seggi ci sarà la formazione di un gruppo che ha un privilegio superiore, una oligarchia. Ed è paradossale che a volerlo siano proprio i Cinque Stelle, cioè la forza anti-sistema per eccellenza. Il taglio dei parlamentari dovrebbe essere accompagnato dall'indicazione di una legge elettorale in Costituzione, così invece favorisce solo le segreterie dei partiti. Se al referendum vince il sì ci saranno le lotte intestine, se vince il no un rimpasto di governo. Ma questo Parlamento reggerà fino alla fine del mandato. Il problema dei problemi nelle democrazie rappresentative è la debolezza dei partiti. È su questo, forse, che bisognerebbe intervenire"

    Di Enrico Mingori
    Pubblicato il 19 Ago. 2020 alle 07:31 Aggiornato il 1 Set. 2020 alle 14:02

    Il 20 e 21 settembre 2020 gli italiani saranno chiamati al voto – oltreché per una tornata di elezioni comunali e regionali – per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari. La riforma – già approvata dal Parlamento e ora sottoposta, appunto, al vaglio dei cittadini – prevede di ridurre da 945 a 600 il numero dei parlamentari: più precisamente, da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori. Il taglio dei seggi è sostenuto in particolare dal Movimento 5 Stelle: l’obiettivo è rendere più snello e meno costoso il Parlamento italiano (che è uno dei più numerosi d’Europa). Risparmio previsto: secondo i Cinque Stelle 500 milioni di euro l’anno, secondo l’Osservatorio Conti Pubblici di Carlo Cottarelli meno di 60 milioni (lo 0,007 per cento della spesa pubblica). Ne parliamo con uno dei più illustri politologi italiani: Nadia Urbinati, professoressa di Scienze politiche alla Columbia University di New York.

    Professoressa, è giusto tagliare il numero dei parlamentari?
    Per me no. O meglio: non è in assoluto un fatto negativo, ma in questo caso lo è senz’altro.
    Perché?
    Perché nella nostra Costituzione non c’è scritta qual è la nostra legge elettorale. Che quindi – essendo appunto una legge ordinaria e non una legge costituzionale – è più facilmente modificabile. Una legge di riforma costituzionale che per funzionare bene ha bisogno di una legge ordinaria non è una buona riforma.

    Perché parla di legge elettorale? Il referendum è sul numero dei parlamentari.
    Un eventuale taglio del numero dei parlamentari non può non essere accompagnato da una decisione coerente sul piano del sistema elettorale. E il sistema elettorale non può essere cambiato ogni volta che qualcuno fa uno starnuto o desidera prevalere sui suoi avversari.
    Per questo andrebbe indicata in Costituzione?
    Esatto.

    Qual è secondo lei la migliore legge elettorale possibile?
    La proporzione seggi-cittadini è una difficile valutazione, che deve tener conto di molti fattori.
    Quali?
    Ad esempio, che ciascun cittadino, indipendentemente da dove viva, abbia una equa e uguale opportunità di essere rappresentato. Oppure che sia garantita rappresentanza di idee e posizioni: non è possibile che, per avere una rappresentanza in parlamento, ci si debba accorpare in un grosso partitone perché i seggi a disposizione sono pochi. Un sistema elettorale deve tener conto di tutti questi fattori.
    Quindi non ce n’è uno migliore in assoluto?
    No, va cercato quello che consente una equa e uguale distribuzione del potere rappresentativo in tutto il paese.

    Perché in Italia fatichiamo così tanto ad avere una legge elettorale stabile?
    Un problema è, come dicevo, che i costituenti decisero di non inserire il sistema elettorale in Costituzione. Generalmente nei sistemi parlamentari è così, mentre nei sistemi presidenziali è inserita.
    E allora qual è la particolarità dell’Italia?
    Noi avevamo un sistema proporzionale puro. Poi, a partire dalla Seconda Repubblica, i concorrenti nella gara elettorale hanno cercato di usare la legge elettorale in funzione dell’esito delle elezioni. Questo ha prodotto delle forme estreme di utilizzo dell’uno o dell’altro sistema.
    Per questo cambiamo così spesso legge elettorale?
    Dal 1992 abbiamo perenni problemi di formazione di alleanze e pensiamo di rivolverli sempre con la legge elettorale. Riteniamo che la legge elettorale sia la chiave di volta per tutti i problemi del paese. Si pensa che le regole del gioco possano essere cambiate a seconda dello scopo da raggiungere. E questa è una stortura.
    Un problema di cultura, quindi?
    Sì, un problema di cultura politica.

    Torniamo al referendum. Il nostro Parlamento è tra i più numerosi d’Europa e d’Occidente. Non ha bisogno di una cura dimagrante?
    Questo non mi sembra un problema. Tra l’altro, il rapporto tra numero di parlamentari e numero di abitanti non è così più alto rispetto ad altri paesi.
    Gli altri paesi, che hanno parlamenti meno numerosi, sono meno democratici del nostro?
    Assolutamente no. Così come noi non siamo più democratici perché abbiamo più rappresentanti. Il problema non è tanto la quantità – o meglio, c’entra anche quella, ma non solo -. La questione è prima di tutto istituzionale: bisogna vedere come sono organizzati gli altri paesi.
    Cioè?
    Non si può, ad esempio, prendere come riferimento la Germania, perché la Germania è un paese federale, dove una Camera ha una funzione e l’altra Camera ne ha un’altra. Quando si fanno i confronti con gli altri paesi occorre fare il confronto anche con il rispettivo sistema istituzionale. E questo non è sempre facile.

    Diceva che la rappresentanza è anche una questione di quantità… 
    In democrazia la quantità conta, molto. Che tutti abbiano il diritto di voto, ad esempio, conta parecchio: chiediamoci perché tutti e non l’80%… La quantità – il numero – nei sistemi in cui bisogna contare per risolvere i contenziosi è molto importante.
    Ci spieghi.
    La questione di fondo è: come dare la rappresentanza a tutti gli elettori? Come avvicinare i pochi che stanno dentro al parlamento ai molti che ne sono fuori? Da quando c’è il suffragio universale questo è un grande problema. Si sono adottati diversi sistemi: le circoscrizioni, il rapporto diretto elettore-eletto, i partiti, i sistemi intermediari di rappresentanza di interessi…

    Altro argomento a favore del taglio dei parlamentari: il risparmio. La nostra è tra le assemblee più costose.
    Questo è un argomento volgare. Se si vuole essere coerenti e se l’obiettivo è solo il risparmio, allora teniamo 10 parlamentari. Altro che 600.
    La sua è una provocazione.
    Se quello è l’argomento, allora risparmiamo davvero. E poi, altro punto: come possiamo sapere che i soldi risparmiati non verranno poi gestiti in maniera dissoluta dai parlamentari che restano? Come facciamo a essere sicuri che ci sarà un risparmio anche nel futuro? Infine, mi faccia dire un’altra cosa.
    Prego.
    Le democrazie costano. Al tempo di Pericle lo Stato pagava i cittadini l’equivalente di un giorno di lavoro perché partecipassero. Se vogliamo un governo che costa poco a noi tutti, allora quello è il governo degli oligarchi. I cittadini devono essere retribuiti quando fanno il loro servizio per la Repubblica. Il problema, semmai, è quanto sono retribuiti. Questo è un problema più serio. Ma non credo che il taglio dei parlamentari ne sia la soluzione.

    Il taglio dei parlamentari porterebbe a un sistema oligarchico?
    Se diminuisce il numero dei seggi, il valore di questi seggi aumenta per chi vi compete ma non necessariamente per tutti noi. E poi, più restringiamo il numero dei seggi per cui competere, più la competizione avrà bisogno di maggiori risorse economiche. Insomma ci sarà la formazione di un gruppo che ha un privilegio superiore. Paradossalmente, se noi vogliamo costruire una casta, questa è la direzione giusta.
    Davvero l’assegnazione di un seggio in parlamento è determinata da chi ha più risorse a disposizione? Non dovrebbe dipendere tutto dal confronto tra le diverse proposte politiche?
    In teoria sì. Ma, se abbiamo 600 parlamentari anziché 945, chi conta di più in campagna elettorale? Contano di più quelle cordate sociali che riescono a esprimere un candidato forte attraverso un sostegno economico forte. E alla fine il cittadino che appartiene a una classe sociale bassa e che non si riconosce nei partiti forti, a chi si rivolge?

    A chi?
    Un tempo erano i partiti che ti davano forza, oggi invece i partiti si appoggiano a quelle parti della società che sono più forti. Noi in Italia abbiamo un sistema di finanziamento ai partiti privato. Si potrebbe dire che coloro che hanno più soldi possono sperare di avere più voce.
    È stato un governo di centrosinistra ad abolire il finanziamento pubblico…
    La riforma del governo Letta fu pessima. Chi ha tanti soldi ha più possibilità di incidere sulla vita politica, e magari anche far eleggere rappresentanti. Questa sarebbe una riforma da fare: un sistema pubblico di finanziamento ai partiti.

    A proposito di centrosinistra, sul referendum il Pd sembra aver assunto una posizione defilata.
    Tipico di questo partito, che, quando si trova di fronte a grandi questioni a cui rispondere con un sì o con un no, risponde con un nì, perché altrimenti scontenta qualcuno e perde i pezzi. Un partito che non ha una linea, una compagine troppo eterogenea.

    Insiste molto sulla crisi dei partiti…
    Questo della debolezza dei partiti è il problema dei problemi delle democrazie rappresentative. Oggi i partiti non sono più partiti di massa, non sono più cittadini organizzati. Sono gruppi di persone che vogliono fare politica con l’obiettivo di gestire il bene pubblico. Forse sarebbe il caso di intervenire.
    Come?
    I partiti ormai sono solo dentro le istituzioni, fuori non ci sono più. La politica è sempre più un mestiere e la funzione dei partiti dovrebbe essere regolata.
    Quindi pensa a partiti “istituzionalizzati” come organo costituzionale, al pari di Governo e Parlamento.
    Altrimenti restano forme oligarchiche vere e proprie, come di fatto sono già oggi. La democrazia deve porre limiti e regolare il funzionamento di queste organizzazioni: il numero dei mandati, quante cariche può avere una persona… Il fatto è che gli stessi che dovrebbero risolvere questo problema sono gli stessi che ne traggono vantaggio, quindi non è pensabile che siano loro i migliori legislatori.

    Chi può trarre vantaggio dal taglio dei parlamentari?
    Questa è una riforma che favorisce sicuramente i partiti come li conosciamo oggi: i partiti che non vivono più nella società ma nelle e delle istituzioni.
    Perché?
    Le segreterie nazionali dei partiti vedrebbero risolto più facilmente i loro problemi. Avrebbero un potere ancora superiore rispetto a oggi, perché i pochi rappresentanti che riuscirebbero a piazzare acquisterebbero un valore superiore, così come acquisterebbero un valore superiore le loro decisioni. La cooptazione sarebbe, di fatto, la regola aurea. E la possibilità dei cittadini di incidere sulle scelte dei partiti sarebbe gravemente diminuita. La loro distanza dalle istituzioni aumenterebbe. È paradossale che questa proposta arrivi dal Movimento 5 Stelle, che si poneva come la forza anti-sistema per eccellenza.

    Sta dicendo che il Movimento 5 Stelle, con il taglio dei parlamentari, può favorire la “casta”?
    Ma certo! Il problema – che in origine avevamo colto in pochi – è che coloro che si ponevano come anti-casta ponevano di fatto le condizioni per una nuova casta. Dovevano dare la spallata a chi deteneva il potere prima di loro e l’hanno fatto: a questo punto chiudono le paratie e stabiliscono che sono loro a stare lì, per un tempo molto lungo. Questo ha il sapore di una oligarchia.
    I Cinque Stelle ne sono consapevoli?
    Non si può dire e forse no. Dicono di avere l’obiettivo di far fuori la casta, di rottamare. Del resto, la lotta alla casta in Italia non è di oggi: bisogna tornare almeno agli anni Novanta. Ora questo proposito si traduce istintivamente, tra le altre cose, nel tagliare il numero dei parlamentari. Ma i meccanismi di produzione del potere vanno in direzione contraria.

    Che succede se al referendum vince il sì?
    Faranno una legge elettorale che consentirà ai partiti più rappresentati di avere più chance di vittoria alle elezioni. E poi, all’interno dei partiti, si innescherà una guerra intestina per i pochi seggi a disposizione. Non tutti potranno essere accontentati nelle loro brame. Ci saranno tagli di teste all’interno dei partiti.
    E se vince il no? Sarebbe una battuta d’arresto per i populisti?
    Non credo, perché nessuno ha fatto una battaglia profonda contro il taglio.
    E allora?
    Certamente il M5S ne uscirebbe indebolito e, quindi, si potrebbe pensare che le forze della maggioranza più vicine al no abbiano la possibilità di rivendicare qualcosa, magari un ministero.

    Rimpasto in vista?
    Sì, credo di sì. Ma niente più di questo.
    Il Parlamento andrà comunque avanti fino all’elezione del presidente della Repubblica?
    Per me regge fino alla fine del mandato. Non c’è un’alternativa. A meno che non vogliamo riconoscere che la destra e la sinistra si equivalgono. Ma il problema è che noi abbiamo una opposizione che se vince è un problema…
    Il centrodestra per lei è una minaccia così grave?
    Non solo una minaccia alle istituzioni. Dal punto di vista ideologico sarebbe pesantissimo avere un governo che fa una continua campagna elettorale semi-fascista.
    Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, però, già governano in molte Regioni.
    Hanno tantissimo potere, in particolare al Nord. Ma non gestiscono lo Stato.

    Lei insegna a New York ed è cittadina statunitense. Come vede la sfida Trump-Biden?
    Questa volta Trump può soccombere, ma la partita non è finita. Il problema per Trump è che dentro al Partito repubblicano ci sono umori contrari alla sua candidatura. E non dimentichiamo che di recente Bernie Sanders ha detto che – costi quel che costi – bisogna votare contro Trump, anche appoggiando la parte conservatrice della nazione. Questa è stata una uscita molto importante, perché significa che Biden si candida a rappresentare anche i voti repubblicani moderati: può essere il passaporto per la Casa Bianca.
    Biden è un buon candidato?
    Biden è più popolare di Hilary Clinton, che invece era avvertita come espressione dell’establishment.
    Però?
    Però c’è una parte di America – la spina dorsale dell’economia agricola e industriale – che ancora non ha espresso forte disaffezione verso Trump, perché economicamente non ha subito forti danni. La politica protezionista di Trump li ha aiutati. Ma ad aver cambiato lo scenario è stato il Coronavirus.

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