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    La lezione di Antimafia di Massimo Giletti

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi
    Di Giorgio Del Re
    Pubblicato il 4 Mag. 2020 alle 15:31 Aggiornato il 4 Mag. 2020 alle 16:59

    Dap, caso Di Matteo-Bonafede: la lezione di Antimafia di Massimo Giletti

    Quello che abbiamo visto ieri sera a Non è l’Arena è diventato in poche ore un caso scuola, un incredibile apologo sull’Antimafia in Italia, sulla follia del sistema politico-informativo nel nostro paese. Da anni, guardato addirittura con sufficienza, Giletti aveva iniziato a raccontare una storia diversa, rispetto alla raffigurazione di maniera, che divideva il mondo in angeli e demoni, tra aristocratici della missione di giustizia, e piccoli protagonisti minori senza gloria.

    Non è l’Arena è ripartita dal basso, dalla saga delle sorelle Napoli, quando tutti ridevano e davano di gomito sorridendo: “Ma questa non è Antimafia!”. Intendevano dire che non erano “eroine” modello, che non erano telegeniche, che la loro lotta a Mezzoiuso era una piccola “storia di paese”, che non accendeva gli animi delle grandi narrazioni, che non meritava l’attenzione del giornalismo “vip”.

    Passando per questo racconto, invece, Giletti ha stabilito un metodo, è ripartito dai fatti, dalle inchieste sul campo, dalle suole e dalle scarpe, come sempre si dovrebbe. Ma questo metodo, e questa attenzione, sono gli stessi che Non è l’Arena sta applicando oggi al “caso Boss scarcerati”. Mentre i grandi giornaloni consideravano questa vicenda una complicazione amministrativa, una notizia minore, Giletti l’ha messa al centro del suo racconto, uscendo dal dibattito ossessivo sul Covid, considerando quel provvedimento “amministrativo” (giustamente) come il prodotto di una responsabilità politica determinata.

    Subito dopo, risalendo questa catena – con la sua portentosa squadra di inviati – Giletti è andato a caccia del “decisore” che ha prodotto il tana libera tutti dei boss. Giletti, dunque, riparte dai fondamentali, riparte dai fatti, riparte dai documenti, e in questo modo ne tira fuori uno clamoroso dei magistrati di sorveglianza di Sassari (lo abbiamo pubblicato su questo giornale) che sette giorni fa, in un incredibile effetto domino, produce una risposta in diretta imbarazzante del direttore del Dap Basentini (“Quel documento non è conforme a verità…”) e di conseguenza, solo due giorni dopo, le sue necessarie dimissioni.

    Sembrava già, dunque, che tutto fosse accaduto con questo esito drammatico ed estremo. E invece, ieri, ecco il colpo di scena più clamoroso. In diretta televisiva, ancora una volta, durante Non è l’Arena il magistrato Di Matteo (che mai prima d’ora aveva parlato di questa storia) – forse stupito che l’eurodeputato Giarrusso in studio avesse detto una frase curiosa (“La sua nomina è stata fermata perché Di Matteo era considerato troppo vicino al M5s”) – prende cappello e lancia la bomba: “Il ministro mi propose la nomina al Dap, io chiesi 48 ore di tempo per accettare, ma quando gli dissi si , solo un giorno dopo, fece marcia indietro”.

    Sembrava già una bomba atomica, ma subito dopo arriva un nuovo colpo di scena. Il ministro Bonafede, infastidito da questa ricostruzione, chiama in diretta per dire che forse di Matteo “nella sua intima percezione si è convinto di qualcosa che non era”. La trasmissione, ormai una drammatica telenovela in cui purtroppo tutto si rivela vero, si chiude con la conferma lapidaria e granitica di Di Matteo: “Vedo che il ministro non ha potuto che confermare quello che ho detto. D’altra parte – conclude il magistrato – io ho raccontato i fatti, e i fatti non si possono smentire”.

    Di Matteo aveva taciuto questo retroscena per due anni. E – come se non bastasse – in studio c’è anche il sindaco di Napoli De Magistris, amico di Di Matteo, che a quel punto rivela: “Conoscevo questo retroscena. Per due anni ho taciuto, ma adesso non posso che confermarlo, visto che lui stesso lo ha raccontato. È andata proprio come dice Di Matteo”.

    Due lezioni importarti, la prima per la politica: forse se il ministro Bonafede avesse taciuto gli sarebbe andata meglio, perché il retroscena che è emerso, per lui non è in nessun caso lusinghiero. Di Matteo non è stato fermato perché “amico dei Cinque Stelle”, come diceva incautamente Giarrusso. Di Matteo è stato fermato dal ministro dei Cinque Stelle (e forse lui stesso ci spiegherà perché). La seconda lezione, tuttavia, è per il giornalismo: partendo dall’Antimafia dei piccoli eroi e dei fatti, applicando il metodo dei fatti e delle notizie, Giletti ha scoperchiato un verminaio, fatto emergere il retroscena che cento professionisti blasonati con tutti i quarti di nobiltà in regola non avevano svelato. Chapeau.

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