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    Il populismo chic delle élite: la competenza come unica fede

    Illustrazione di Emanuele Fucecchi
    Di Alessandro Sahebi
    Pubblicato il 19 Mar. 2021 alle 16:16

    Il populismo chic delle élite: la competenza come unica fede

    La “competenza dei tecnici” è diventata il nuovo feticcio in grado di garantire, tutto sommato, un discreto consenso popolare. Del resto noi italiani siamo abituati ai tormentoni delle stagioni politiche e – proprio come successo con l’onestà di grillina memoria (o, andando indietro, con l’onnipresente liberalismo in chiave anticomunista di Berlusconi) – presto ci accorgeremo che la compensazione di qualità comunemente ritenute carenti nella classe dirigente del Paese da sola non basta. E anzi, a volte può fare seri danni.

    L’inafferrabile competenza del tecnico

    Sia chiaro, non si critica la competenza in sé, piuttosto si critica il cieco consenso alla competenza tecnica e l’arroganza di chi la difende da qualsiasi critica, denigrando gli oppositori come degli stupidi, di fatto trasformando il campo democratico in una blastocrazia. Anche perché prima di tutto dovremmo definire cosa sia la competenza e chi può tracciare la linea di divisione tra il politico competente e quello che non lo è.

    Non sappiamo nemmeno quali siano le competenze del tecnico di cui il popolo ha tanto fame: possiamo dire genericamente che sia necessario essersi laureati in un’università prestigiosa, aver maturato esperienza lavorativa in ruoli di spicco per diversi anni e non essersi sporcati troppo le mani con quella melma nauseabonda della politica degli incompetenti.

    A spanne dovremmo esserci, la ricetta dell’impasto per il buon governo potrebbe essere questo. Peccato che, messa così, potrebbe non lievitare.

    La competenza del tecnico non è mai neutra

    Si può dire apertamente che la competenza del tecnico sia – e non me ne vogliano i credenti – paragonabile alla materia divina, poiché risulta essere inarrivabile al cittadino comune, perché agisce secondo un disegno misterioso ma mai sbagliato e perché è sostenuta da una classe sacerdotale di fedeli giornalisti pronti a diffondere il Verbo del buon governante e dei suoi indiscutibili successi del passato, finanche a dare cronaca dell’amore per il fedele bracco ungherese da compagnia del Presidente Draghi (meno spazio, va detto, è stato dato alle zone d’ombra. Ma del resto nessun bravo prete dal suo pulpito recita i poco piacevoli episodi della versione meno pop di Dio nell’Antico Testamento).

    Il problema principale della competenza tecnica, però, sta proprio nel suo apparire neutra e sempre virtuosa quando calata in politica: chi la possiede detiene il mantello dell’invisibilità ideologica e può tutto, perché “se qualcosa fa, lo fa perché sa”.

    Non abbiamo scuse, questo non è vero e lo sappiamo da almeno 2.300 anni: già Aristotele aveva infatti intuito che il potere dei migliori può degenerare, se non bilanciato, nel virus della tecnocrazia oligarchica, ma forse per disperazione fingiamo di non averlo capito bene.

    Sia chiaro, la competenza in sé è una virtù e su questo non credo ci sia molto da dibattere. Problematico è invece pensare che sia la più importante delle virtù, o peggio l’unica, soprattutto se, con la scusa dell“almeno sono competenti”, ci riduciamo ad accettare qualsiasi scelta politica in modo acritico illudendoci che un tecnico farà comunque la scelta migliore.

    Perché – chiariamolo – la politica, come l’economia, non è una scienza esatta (nemmeno se sei stato presidente della Bce) e le decisioni rispecchiano sempre una visione del mondo ideologica, anche se non lo si dà a vedere. Su questo dobbiamo essere tutti d’accordo: non esiste la formula del buon governo e anche i tecnici, per quanto esperti di una materia specifica, possono dimostrarsi dei perfetti idioti nella gestione della cosa pubblica. Sono due cose diverse.

    La competenza è inquinata dal coinvolgimento. “E tu ti faresti operare da un cardiochirurgo incompetente?”. No, per carità! Ma l’azione di un medico è data anche da protocolli precisi che non possono essere messi in discussione senza motivi ragionevoli, le scelte politiche non hanno vademcum e sono determinate da interessi particolari e dai compromessi.

    Il paragone semplicemente non regge e gli uomini e le donne che in politica occupano le posizioni apicali, anche quando scelti da Sergio Mattarella, sono continuamente condizionati dalle loro stesse opinioni.

    Uno dei principali problemi nella visione acciecata dall’amore per la competenza tecnica è di ordine storico: prima del 2021, in qualsiasi ufficio comunale, come in qualsiasi assessorato o ministero, i tecnici ci sono sempre stati per affiancare i cittadini eletti e “mettere a terra” la direzione politica. Nella sostanza nulla è cambiato, con il “Governo Tecnico”.

    C’è poi un problema di ordine valutativo: se competenza vuol dire titolo di studio in un ateneo importante, va detto che che le classi sociali più benestanti sono ad oggi sovra-rappresentate nelle migliori università e questo si tradurrebbe in un pericoloso ostacolo alla presenza di rappresentanti delle classi sociali inferiori nei ruoli dirigenziali del Paese. Ed è una questione sul piano democratico, innanzitutto.

    Lo stesso discorso può essere fatto per l’esperienza lavorativa, con l’aggravante che ad oggi è evidente che i successi nel settore privato non si traducono in successi nell’amministrazione pubblica, a meno che nel 2021 ci si illuda ancora nell’utopia del modello New Public Management.

    Resterebbero la competenza e l’esperienza maturata nelle amministrazioni pubbliche, quella sì che sarebbe una buona competenza di cui tener conto, ma puzzerebbe troppo di politica e troppo poco di tecnica, e non andrebbe bene all’antipolitica elegante delle élite.

    L’antipolitica elegante delle élite

    Antipolitica fa rima con incompetenza e improvvisazione, almeno nell’immaginario comune, e in questa accezione evoca i “Vaffa” urlati da Beppe Grillo che hanno dato inizio ad una nuova stagione politica.

    Oggi l’antipolitica c’è, ma è elegante e parla a bassa voce. Non urla, ma continua a delegittimare la politica servendosene. Coincide spesso con gruppi di pressione economica – questo va detto assumendosi il rischio di farsi dare dei populisti – e può causare qualche problema di tenuta del patto sociale. Ammalia anche le masse, tuttavia, e lo fa per paura.

    Negli ultimi vent’anni abbiamo infatti cambiato idea molte volte, ma siamo rimasti gli stessi: abbiamo votato per paura dei comunisti, ma ci siamo resi conto che è stato un errore. Poi abbiamo votato per paura di fallire, ma anche in quel caso abbiamo realizzato che poteva andare meglio. Abbiamo creduto di votare contro la casta, ma poi ce ne siamo trovata un’altra ma più casinista. E ora, per paura degli incapaci, votiamo convinti che la virtù più importante sia la competenza tecnica. E non sappiamo cosa succederà.

    A costo di sembrare degli inconcreti nostalgici, si può almeno sperare che un giorno torneremo a votare per chi ha una visione ed è in grado di immaginare il mondo dei prossimi cento anni, anche se costui fosse un utopista. Un politico insomma, ma con la “P” maiuscola: uno di quelli che, parafrasando Weber, non vive “di” politica” ma “per” la politica. Aspettiamo il prossimo giro di giostra.

    Leggi anche: 1. Bersani: “Il populismo delle élite massacra Conte e racconta Draghi che cammina sulle acque” / 2. Diavolo d’un banchiere (di Marco Revelli) / 3. Tre motivi per cui la consulenza a McKinsey è tutto fuorché ininfluente (di G. Gambino)

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