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    L’assurda condanna di Mimmo Lucano: in Italia nemmeno gli assassini prendono 13 anni

    Di Luca Telese
    Pubblicato il 30 Set. 2021 alle 13:44 Aggiornato il 5 Ott. 2021 alle 18:17

    È inutile girarci intorno. Si può amare o non amare Mimmo Lucano, si possono condividere o meno i metodi che ha adottato per costruire il suo “modello Riace”, da amministratore: ma una condanna a 13 anni e due mesi per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e illeciti in relazione ai progetti di accoglienza agli immigrati” è assurda. Assurda in primo luogo per la sproporzione dei valori e delle pene: per l’ex sindaco della cittadina calabrese, infatti, il pubblico ministero di Locri, Michele Permunian, aveva chiesto una condanna a sette anni e undici mesi.

    E la stessa pm ipotizzava già capi di imputazione gravissimi: “associazione a delinquere”, “abuso d’ufficio”, “truffa”, “concussione”, “peculato”, “turbativa d’asta”, “falsità ideologica” e – appunto – “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Ma che adesso il cosiddetto “processo Xenia” si chiuda con una pena raddoppiata, che ricorda quella di chi viene condannato per omicidio, superiore persino ai 12 anni comminati a Luca Traini per il suo raid razzista, francamente sembra davvero che si sia giunti a una condanna fuori da ogni misura.

    E ancora: nemmeno nel più severo impianto accusatorio ipotizzato contro di lui si è sostenuto che Lucano abbia cercato – attraverso il suo impegno per l’integrazione – lucro o tornaconto economico di qualsiasi tipo. L’idea di un sindaco che sbaglia inseguendo un sogno di integrazione, o che attraversa il confine della legalità formale, sia oggi considerato al pari di un killer della ‘Ndrangheta o di uno scafista, dunque, deve creare una qualche preoccupazione in tutti noi.

    Un verdetto così severo, dunque, è spiegabile solo con un (pre)giudizio ideologico. Ed è davvero triste – infine – che a tre giorni dal voto arrivi una sentenza che si abbatte su di un candidato di punta, animatore di una lista alle elezioni regionali. Certo, i tempi della giustizia devono essere autonomi, e la decisione è arrivata dopo ben tre giorni di camera di consiglio da parte del collegio presieduto dal giudice Fulvio Accurso: non deve essere stata una scelta facile.

    Ma per paradosso gli elettori potranno conoscere il verdetto, ma non le motivazioni, e tutto questo – in un senso o nell’altro – avrà un impatto fortissimo anche sulle scelte dei cittadini. Tuttavia il tema più importante è un altro, e parte dagli addebiti reali che hanno prodotto quell’impianto accusatorio abnorme: un matrimonio misto combinato (per fare acquisire una cittadinanza ad un extracomunitario), e l’impegno per trovare lavoro a degli stranieri disoccupati, oppure – dettaglio clamoroso – gli asinelli usati per la raccolta differenziata nei vicoli, non possono in nessun caso diventare gli estremi per affibbiare a Lucano il reato di “associazione a delinquere” o di “concussione”.

    In un territorio fortemente segnato dall’illegalità, come la Calabria, questo primo grado sarà ricordato come una pagina buia. L’accusa sostiene che Lucano si sia arricchito, non con il denaro (dato che non è stato provato nemmeno un centesimo di arricchimento personale), ma grazie alla ricerca di un vantaggio politico, e di un consenso elettorale (ottenuto grazie al suo sistema).

    A questo proposito, forse, andrebbe ricordato che Lucano ha rifiutato una candidatura alle elezioni europee che gli avrebbe regalato (con il proporzionale puro) una elezione certa a Strasburgo e la relativa immunità. L’ex sindaco, invece, ha deciso di rischiare con una sua lista, sul suo territorio, per entrare nel consiglio regionale. Adesso si potrebbe creare un paradosso per cui Lucano potrebbe vincere le elezioni ma, in virtù della legge Severino, risultare ineleggibile già con la sentenza di primo grado. E poi – dopo il terzo grado – ritrovarsi sino alla fine della legislatura in carcere.

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