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    L’Iran provoca i sauditi e gli Usa ma nessuno vuole un’escalation in Medio Oriente (neanche Teheran)

    Il presidente iraniano Hassan Rouhani filmato su un monitor durante il suo intervento all'ultima Assemblea generale dell'Onu. Credit: TIMOTHY A. CLARY / AFP

    Gli interessi economici sono ormai divenuti troppo grandi per accettare una vera guerra distruttiva Il commento di Massimiliano Fanni Canelles

    Di Massimiliano Fanni Canelles
    Pubblicato il 3 Ott. 2019 alle 13:37 Aggiornato il 3 Ott. 2019 alle 13:42

    L’Iran provoca i sauditi e gli Usa ma nessuno vuole un’escalation in Medio Oriente (neanche Teheran)

    L’Iran per dimostrate la sua forza in Medio Oriente sta agendo strategicamente su due fronti paralleli ma opposti. Seguendo una strategia diplomatica il presidente iraniano Hassan Rohani, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu a New York, ha dichiarato di essere aperto a discutere “piccoli cambiamenti, aggiunte o modifiche” all’accordo sul nucleare del 2015 se gli Stati Uniti revocheranno le sanzioni imposte a Teheran.

    Contemporaneamente però l’Iran organizza le sue mosse per dimostrare una straordinaria capacità militare. Possiede il principale arsenale missilistico della regione, è l’unico paese della regione a possedere una flotta sottomarina. La sua intelligence può contare su formazioni di hacker distribuiti su tutta la superficie del pianeta.

    Hanno abbattuto un drone americano, hanno sequestrato navi di tutti i paesi. Basti pensare al sabotaggio delle petroliere nello stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb. Ma l’azione più eclatante è stato l’attacco ai più importanti impianti petroliferi dell’Arabia Saudita – Abqaiq e Khurais – appartenenti alla compagnia Saudi Aramco. Sono stati utilizzati dieci droni causando enormi danni alla produzione petrolifera del paese, con notevoli ripercussioni anche sul mercato energetico globale. L’attacco cibernetico è stato rivendicato dai ribelli Houthi dello Yemen, noto gruppo sciita sostenuto militarmente da Teheran.

    Questa è stata definita come la maggiore interruzione della produzione mondiale di petrolio che si è mai verificata nella storia. Probabilmente l’obiettivo principale era però quello di bloccare la privatizzazione del 5 per cento di Aramco che sarebbe servita ad incamerare i 2mila miliardi di dollari necessari ai progetti del principe Mohammed per ristrutturare l’economia del regno e diventare un valido concorrente nei processi finanziari internazionali.

    Gli attacchi agli impianti sauditi rappresentano comunque l’escalation di una crisi che da più di un anno interessa l’intera regione. Tale crisi ha avuto origine nel momento in cui gli Stati Uniti hanno voluto ridefinire la loro politica nei confronti dell’Iran, prima con il ritiro dall’accordo sul nucleare e poi con l’imposizione di pesanti sanzioni ben viste dal governo saudita sunnita in competizione diretta con la potenza sciita iraniana.

    In risposta a queste iniziative Teheran ha deciso di violare alcune parti dell’accordo sul nucleare, annunciando anche l’avvio della fase di disimpegno dal programma. Ma nessuno ha veramente l’interesse a una escalation di questa crisi, che coinvolge ormai oltre al Medio Oriente,tutto l’Occidente e i paesi asiatici. I motivi principali sono finanziari e commerciali ma non sono da sottovalutare neppure le questioni politiche interne dei vari paesi.

    Le scadenze elettorali in Iran come negli Usa non sono lontane. L’Iran sta mandando segnali intimidatori ai propri avversari ma senza esporsi troppo, al fine di evitare qualsiasi intervento militare tradizionale da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Fine ultimo dell’Iran, infatti, è quello di tenere sotto scacco i propri avversari per aumentare il potere di negoziazione.

    Gli Stati Uniti si muovono cauti rispondendo con attacchi informatici coordinati dal cibercomando statunitense, che pochi mesi fa è stato elevato al livello delle altre forze armate: marina, aviazione e fanteria. Ma anche utilizzando aggressive azioni economiche e finanziarie: il segretario di stato americano Mike Pompeo ad un summit contro la minaccia nucleare iraniana, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, ha annunciato che sanzioneranno alcune società cinesi per l’importazione di petrolio dall’Iran.

    Ma anche Pechino ha interesse a tenere bassa la soglia del conflitto dal momento che intrattiene importanti relazioni economico-diplomatiche ed energetiche sia con l’Arabia Saudita che con l’Iran. Non dimentichiamoci che l’ambizioso programma infrastrutturale, meglio conosciuto come la One Belt One Road, passa anche in quest’area. Tutto questo dimostra come dovremmo abituarci a conflitti non convenzionali che includono diverse componenti dell’azione strategica: diplomatica, militare, commerciale, finanziaria, digitale, cibernetica.

    L’interdipendenza e l’intreccio delle multinazionali con gli stati e fra gli stati stessi, la rivoluzione digitale e l’intelligenza artificiale ha creato il terreno per lo sviluppo di guerre diverse dove l’azione armata viene presa in considerazione come ultima scelta. La ragnatela di intrecci politici, diplomatici, industriali, finanziari fa sì che gli interessi economici siano ormai divenuti troppo grandi per accettare una vera guerra distruttiva. E dopo le strategie avvenute nella guerra fredda fra Usa e Urss che hanno iniziato a far intravedere nuove modalità di conflitto, oggi l’Iran è diventato uno dei primi campi di sperimentazione di questa nuova forma di guerra: la guerra ibrida.

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