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    Strage di Capaci, stiamo commemorando una storia che non riusciamo ancora a raccontare per intero

    Il 23 maggio 1992 venivano assassinati il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro

    Di Giulio Cavalli
    Pubblicato il 23 Mag. 2020 alle 14:35

    Strage di Capaci, stiamo commemorando una storia che non riusciamo ancora a raccontare per intero

    Se c’è una cosa che mi terrorizza è l’usura del ricordo. L’usura la si nota nelle piccole cose, in una foto che perde il senso di raffigurare una persona che è stata viva e invece diventa un effige, un’icona, un santino oppure nella mitizzazione di una morte che copre mediaticamente la vita, le azioni e i pensieri. Sarà che questo anniversario della morte di Giovanni Falcone cade in piena pandemia, sarà che l’antimafia sembra diventato un alambicco solo per i fedeli al tema e sarà che la criminalità organizzata ormai ha confini molto labili con molta imprenditoria che appare sana, lucente e performante ma la severità e l’integrità dell’azione di Giovanni Falcone sembra essersi diluita nella formalità delle cerimonie quando invece dovrebbe rafforzarsi nel propagare dei suoi eredi.

    Falcone e Borsellino, come tutto il pool di Palermo, hanno combattuto anni perché le mafie con tutti i loro gangli diventassero un argomento di cui non potersi disinteressare e l’hanno fatto con una pervicace opera culturale, sociale oltre che giudiziaria. Era l’Italia incauta che confondeva la criminalità organizzata con la regione di appartenenza, quella che si cullava nell’idea di una mafiosità che fosse solo un moderno brigantaggio e quella che non osava accostare la criminalità e la politica. Falcone e Borsellino sono stati osteggiati, calunniati, cannibalizzati da un Paese che solo con la loro morte è riuscito a fingersi in pace con loro ma che ancora oggi indugia nel non riuscire a pretendere con la giusta forza verità e giustizia.

    Esattamente cosa commemoriamo oggi: commemoriamo la bomba, il tritolo, l’autostrada spaccata e i corpi della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? No, così non vale, troppo poco. Troppo facile. La vera commemorazione di Giovanni Falcone e la sua scorta, quella che restituisce dignità a loro e a noi si celebrerà nel momento in cui si capirà chi ha armato quelle mani che hanno predisposto l’esplosivo, chi ha coperto una strage che ha bisogno di molti padri per poter essere architettata e messa in atto.

    Stiamo commemorando una storia che non siamo ancora nemmeno in grado di raccontare per intero. Vi pare normale? Perché c’è un’altra cosa che mi terrorizza con l’usura del ricordo: il dubbio doloroso e atroce che le stesse mani che hanno messo le bombe possano recitare la parte di chi posa i fiori. Il ricordo si pratica, non si commemora.

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